Venerdì, 22 Novembre 2024
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Walter Manfrè ci parla del suo “teatro della persona”

Dopo aver assistito alla messa in scena del suo ultimo lavoro, “La cena” (clicca qui per la recensione), abbiamo avuto modo di parlare, quasi per caso, con Walter Manfrè per fare il punto sulla sua visione del teatro, figlia di cinquanta anni di esperienza sul campo.

 

La cena è uno spettacolo che stravolge l’ordine prestabilito fra palco e platea. Il pubblico diventa parte della scena e gli attori si mischiano con il pubblico. Si tratta di un modus operandi che da sempre contraddistingue i suoi spettacoli...

La cena fa parte di una serie di spettacoli che Ugo Ronfani denominò “teatro della persona”. Ho inventato questo tipo di narrazione molto tempo fa e fanno parte della serie messe in scena come la “Confessione”. Quest’ultima è sicuramente la più famosa ed ha girato il mondo. In questi spettacoli non mi limito a rompere gli schemi, ma colloco il pubblico in modo tale che possa interagire senza mai interferire con la drammaturgia. “La cena”, nasce da una mia esperienza personale, non tutta l’opera sia chiaro ma buona parte sì, escluso l’elemento dell’incesto e quello del gioco che sono invenzioni di Giuseppe Manfridi che ha messo nero su bianco quello che avevo in testa.

 

Rompere la barriera fra spettatore e palco a suo parere può essere un modo per rendere il teatro più attrattivo per i più giovani, sempre più abituati all’interazione?

Moltissimo. C’è da dire però che io intendo il teatro come religione. La scena deve essere già preparata quando lo spettatore entra a teatro. Quando si entra in uno dei miei spettacoli lo spettatore subisce una sorta di soggezione dovuta proprio dalla rottura di cui parlavamo. In questi spettacoli il contatto con l’attore è incredibilmente vicino, vero: passano pochi minuti ed un piatto viene rotto proprio lì, vicino a te e non puoi far altro che rimanere attonito, quasi intimorito aspettando di assistere all’azione successiva, queste sono conoscenze tecniche che creano grande emozione.

 

“Poi col tempo l’uomo l’ha trasformato in commercio-spettacolo togliendogli la sua pura natura etica e poetica”. Questa è la prima frase che compare sul suo sito personale per parlare del International Theatre Centre, che ha aperto nel 2010 nella sua Sicilia…

Sono arrivato a scrivere questo manifesto del teatro con l’intento di racchiudervi dentro i discorsi dei grandi pensatori della nostra storia, da Gandhi a Che Guevara. Il teatro non deve essere puramente didattico, ma la poesia e la religiosità dovrebbero prevalere così da far sentire lo spettatore padrone della scena. Una scena che mi segnò fu prima della messa in scena di uno spettacolo... avevo venticinque anni e sentii due spettatore che appena entrati in sala dissero: “dopo dove andiamo a mangiare la pizza?”. Lì ho capito che dovevo fare qualcosa per rompere quella distanza, per far girare la testa agli spettatori e dargli consapevolezza dello spettacolo, su come lui avrebbe risolto il problema o svolto l’azione.

La mia scuola nasce proprio da questa esigenza. È come se avessi voluto ricreare la pirandelliana “villa degli scalognati” dove si rifugiano le anime stanche della volgarità del mondo, lontano dal caos, dal casino che fanno i Giganti della montagna e dentro questa villa possono nascere i sogni più grandi. Dentro la scuola pratico proprio questo, cerco di tirare fuori i giovani dal guscio protettivo, costrittivo, di Facebook.

 

Come vede il teatro fra cinquant’anni, il commercio finirà per divorare del tutto lo spettacolo?

Bisogna che questo accada, ma bisogna vedere prima cosa ci sarà intorno a noi fra cinquant'anni. Il teatro non sarà mai cancellato perché è il primo strumento di comunicazione nel campo dell’arte, ma il suo futuro dipende da noi.

 

In tanti anni di teatro, qual è il ricordo che in assoluto porta dentro di sé con più gioia?

Ci sono tanti episodi, sia comici che pratici, ma quando ho messo in pratica questo modo di comunicare con lo spettatore, quello che vi spiegavo prima ho capito che ero riuscito nel mio intento. Dividere gli spettatori in piccoli gruppi permette un contatto diverso, ho fatto addirittura uno spettacolo in cui vi erano quaranta attori per venti spettatori, lì mi sono sentito un’inventore.

 

Se tutto il suo lavoro in ambito teatrale potesse essere racchiuso in una frase da lasciare ai posteri, quale sarebbe?

Ci sono due frasi che sento molto mie. La prima è di Shakespeare e si trova nel Mercante di Venezia “Ogni cosa alla sua ora di pregio e perfezione mi colora”. Vedo tanto sgomitare ma nessuno che si concentra per produrre, tutti pensano solo a fregare gli altri.

L’altra frase è di Pasolini, quando Pilade si accorge che la sua rivoluzione comunista è fallita dice: “c’è nell’uomo un diritto a prendersi quella ragione che non governa e nessun Dio controlla, io ora lo esercito e mentre sono qui sconfitto dagli avvenimenti un’America che dà scandalo e vergogna scorre stupendamente nella mia carne, nessuna ragione potrà mai fermarsi”.

Sono frasi contrastanti ma molto interessanti.

 

Come le piacerebbe concludere la sua carriera teatrale?

Ho un sogno: un palcoscenico circolare, come lo era in antichità, con al centro una pedana con un attore, solo, nudo armato di una cetra che recita, danzando, le poesie più belle e rappresentative della nostra umanità.

 

 

Enrico Ferdinandi

8 ottobre 2018

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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