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Intervista a Rosy Bonfiglio in scena al Teatro Studio Uno dal 28 al 31 gennaio 2016
Rosy Bonfiglio, sei o fai l'attrice?
Questa è una domanda che mi pongo sin da quando sono ragazzina, quando a 14 anni compresi e decisi che questo sarebbe stato il mio mestiere. Mi chiedevo “Se poi mi chiedessero che lavoro faccio, dovrei rispondere che Sono un’attrice, o che Faccio l’attrice?”. Difficile dirlo. Col tempo ho compreso sempre più chiaramente che quella dell’attore fosse una scelta di vita, spaventosamente e meravigliosamente assoluta, o almeno così è per me. Ci sono molti modi di fare questo mestiere, mille strade, eppure l’unica che riesco a concepire è quella di una dedizione sacra e totale.
In questo senso si E’ un attore, nella misura in cui la tua anima, il tuo corpo, la tua mente, si svegliano al mattino sotto il segno di una ricerca, segretamente nascosta in tutte le cose della vita, che siano anche andare a fare la spesa, piuttosto che fare la fila alle poste, o correre al parco. Lo sguardo sul mondo, nel mondo, dentro le cose e le persone che lo abitano, è continuamente teso alla scoperta di un sottobosco misterioso, il sottobosco dell’umano, con tutte le sue smerigliature, brutture e meraviglie. Oltre ogni apparenza, penso che l’attore sia intimamente il filantropo per eccellenza, perché solo amando profondamente gli esseri umani puoi decidere di esplorarli così a fondo, assumendoti il rischio di affacciarti sul loro abisso. E’ un viaggio dall’esito sempre incerto. Una eterna passeggiata sul filo dell’equilibrista. Molto spesso mi pongono la classica domanda “Ma se tu fai l’attrice allora reciti anche nella vita?”. Mi ha sempre fatto sorridere, e alle volte in realtà mi da anche un po’ fastidio. Salire su un palco e dare voce e corpo a un personaggio non credo abbia troppo a che fare con l’idea di una finzione o di una simulazione. Piuttosto lo penserei come fosse scrivere una lettera sotto dettatura di un nostro amico non vedente. Ha più a che fare con gli oracoli, pertiene al divino, all’invisibile che si fa manifesto. Quando nella vita mentiamo stiamo semplicemente occultando una verità. Sul palco questo non accade mai. O almeno non dovrebbe. Anzi. Ci si sottrae a noi stessi in virtù di una voce più grande. Ho risposto alla domanda? Ok, mi sa che sono un’attrice.
Quanto e in che modo hanno influito prima Luca Ronconi e poi Gabriele Lavia sulla tua formazione?
Luca Ronconi e Gabriele Lavia hanno rappresentato chiaramente gli incontri più decisivi del mio percorso formativo e lavorativo. Il primo incontro con Gabriele fu durante il saggio di diploma in Accademia, di cui lui firmava la regia. Il primo giorno che incontrò la mia classe, al Teatro Argentina di Roma, mi guardò e mi disse “Sai cantare? Sali sul palco e mi fai sentire qualcosa?”. Ricordo che mi sentii morire. Tra l’altro avevo iniziato da poco il mio percorso musicale, come cantautrice all’interno di una rock band, ma l’idea di cantare su quel palco, in quel teatro, davanti a un regista così importante, mi terrorizzava. Imbarazzata ed elettrizzata al tempo stesso gli dissi che sì, sapevo cantare, e andai sul palco. Mi sembrava di non ricordare improvvisamente nessuna canzone, così chiusi gli occhi e venne fuori Stranizza d’amuri, un’antica canzone siciliana, nel tempo rivisitata da molti artisti. Ci fu uno strano silenzio, Gabriele bofonchiò qualcosa, ma capii dopo che fosse un grande apprezzamento. Mi disse “Tu sarai la moglie del cantastorie nel mio Vita di Galileo”.
Non ci potevo credere. Successivamente quella produzione fu rimandata, e Gabriele durante una prova del saggio mi disse “Farò i Pilastri della società di Ibsen. Non ci sono ruoli, ma vorrei che tu venissi con me, aggiungerò un paio di battute a un piccolo personaggio che nel testo è muto”. Raccolsi con entusiasmo la sua attestazione di stima e non ancora ufficialmente diplomata all’Accademia Silvio d’Amico, accettai il mio primo lavoro. Quell’estate, prima di iniziare le prove dei Pilastri a settembre, l’incontro con Luca Ronconi, che mi selezionò per il suo laboratorio di specializzazione a Santa Cristina. Ho i brividi ogni volta che ci ripenso, fu un’epifania oltre ogni previsione o aspettativa. Il lavoro col Maestro mi aprì immediatamente degli orizzonti ancora inesplorati. Compresi da subito la portata di quell’esperienza, che si rivelò e si rivela ancora oggi, una delle più importanti del mio percorso. Sembrerà strano, considerando le considerazioni molto diffuse sul “ronconismo”, ma a Santa Cristina, sotto la sua guida illuminata, io scopersi una libertà espressiva mai esplorata prima, attraverso una moltiplicazione esponenziale dello sguardo sul testo, in cui ogni parola si faceva pozzo e il lavoro interpretativo si faceva tuffo vertiginoso e prodigioso. Ci rincorremmo spesso dopo quel mese a Santa Cristina, ci eravamo piaciuti.
Purtroppo il tempo non fu dalla nostra parte, e la sua perdita fu per me un dolore fortissimo. Gli devo quello che di più importante ho compreso quando davanti a un foglio pieno di parole, devo iniziare a dar loro vita. A settembre iniziò appunto il viaggio sulla nave Lavia, durato più di due anni, con I pilastri prima, e i Sei personaggi in cerca d’autore subito dopo. Lavorare con Gabriele è stato imparare il mestiere vero, lo stare sul palco e cavalcarlo senza essere cavalcati, la palestra della disciplina e del rigore assoluti, la grandezza di un attore infaticabile e appassionato. Il piccolissimo ruolo nel suo Ibsen fu una scuola incredibile. Trascorrevo le lunghe ore di prove osservando in silenzio lui, il suo modo di lavorare, di recitare e di dirigere gli attori, e attraverso il lavoro altrui ho imparato tutto quello che poi mi trovai a dover mettere in campo l’anno successivo, quando in una telefonata entusiasta mi disse “Ti faccio una proposta indecente. So che hai 23 anni, ma…vuoi fare la Madre dei Sei personaggi?”. Un’avventura che non dimenticherò mai. La Madre dei Sei personaggi è stato davvero il mio folle volo, per l’investimento personale messo in campo, per l’onore di recitare con lui, al suo fianco, per gli scambi che durante le faticosissime prove abbiamo avuto. Grazie a Gabriele ho calcato i palchi più importanti d’Italia, ho imparato a convivere con l’adrenalina che ti paralizza le gambe prima di entrare in scena davanti a centinaia di persone, e la freddezza indispensabile del controllo. E’ e sarà sempre il mio primo padre artistico, quello che mi ha raccolta ancora fanciulla mentre terminavo i miei studi, e prendendomi per mano mi ha fatta diventare grande.
Dal 28 al 31 gennaio sei in scena al Teatro Studio Uno con "Capinera", com'è il tuo rapporto con Verga e qual è stata la genesi dello spettacolo?
Durante una pausa della tourneé dei Sei personaggi, feci un altro incontro fortunato. Matteo Tarasco mi selezionò durante un suo provino-laboratorio per interpretare Briseide nel suo spettacolo Iliade: le lacrime di Achille. L’incontro con Matteo ha segnato la genesi di una lenta e graduale rinascita, durante la quale ho pian piano preso coscienza di come stesse crescendo in me una urgenza espressiva personale, che cominciava a far sentire la sua flebile voce e destinata a farsi urlo.
Durante una breve tournée siciliana dello spettacolo, nel corso di una conversazione con Matteo e le mie colleghe e sorelle Elena Aimone e Giulia Santilli, Matteo mi dice “Sai che secondo me tu dovresti leggerti un po’ di Verga? Credo che troveresti dentro un mondo che ti appartiene…”. Essendo lui dotato di una sensibilità veramente molto rara, colsi quel suggerimento come un tesoro prezioso e mi precipitai in libreria a comprare Storia di una capinera. Lo divorai tutto d’un fiato. Fu come una prodigiosa possessione. All’ultima pagina chiusi il libro sapendo che iniziava in quel momento il viaggio più bello. Così a novembre iniziai le mie interminabili ore di lettura e rilettura, per l’adattamento di quello che sarebbe diventato “CAPINERA”.
Quale/i affinità spirituale/i hai con la protagonista Maria?
Ciò che immediatamente mi ha conquistato è stato il fatto che il romanzo celi dietro una storia apparentemente retrò e fuori moda, una voragine di riflessioni molto più profonde. Maria ha in comune con me un certo entusiasmo febbrile per la vita tutta. E’ posseduta da una incontenibile fame di scoperta, è un animale selvaggio e giocherellone, ma al tempo stesso fragile e pericolosamente sensibile. “Io penso che a noi poveri cuori deboli, timidi, tutto questo tumulto del mondo, tutte queste sensazioni potenti, tutti questi piaceri, facciano un male immenso”.
Mi sono spesso rispecchiata in questa frase di Maria. Talvolta mi immergo così a fondo nelle cose da farmi molto male, eppure non riesco a sottrarmi. E poi sono dell’idea che una volta assunte delle consapevolezze, sia impossibile ripristinare un equilibrio necessariamente mutato. Come ho scritto nelle mie note di regia, da certe rive della coscienza, dolorosamente ma anche fortunatamente, non si fa ritorno. Nell’ impossibilità di vivere appieno la sua scoperta, Maria diventa pazza e ne muore. Non potrebbe mai ritornare ad essere la “povera Maria” del convento, ingenua e obbediente, dopo aver preso coscienza di quello che lei stessa definisce “il mio spirito ribelle”. Questo mi da anche il senso e la misura di come si debba accettare e accogliere il cambiamento, come evento sempre e comunque positivo, produttivo, costruttivo.
Talvolta si ha paura di cambiare idea, si ha paura di scoprire dei gusti diversi da quelli del giorno prima, si teme di andare ad aprire alla novità che bussa alla nostra porta, quando bisognerebbe solo vestirsi di un po’ di sana incoscienza e affacciarsi. Ci si potrebbe chiaramente far male, ma sono dell’idea che quando si prova a non avere paura, gli esiti possibili in fondo siano solo due: o ci si schianta, o si scopre che non c’era niente da temere.
Meglio Verga Scapigliato o Verga Verista?
Da siciliana non sono mai stata una grande appassionata di Verga. Diciamo che ero più del filone dei “pirandelliani”. Questa esperienza mi ha fatto scoprire un autore che avevo sempre sottovalutato e che mi ha invece del tutto conquistata. Durante i mesi di lavoro alla Capinera ho letto le altre opere di Verga, e ne sono rimasta progressivamente affascinata. Al di là delle canoniche catalogazioni che ce lo definiscono scapigliato o verista, per me è semplicemente un uomo che attraverso una sensibilità fortemente siciliana, mi racconta un paesaggio sensoriale, fortemente fisico, carnale, in cui le emozioni, i sentimenti e i pensieri dei personaggi hanno un corpo scalpitante già tra le pagine.
E’ per questo che ho trovato immediato il canale per la messa in scena. Mi sembrava di sentire parlare Maria mentre leggevo il romanzo. La vedevo ridere, correre, sentivo il suono del suo pianto, la temperatura del suo imbarazzo. E’ il miracolo che un grande autore riesce a compiere con la sua scrittura.
In un solo fiato tutti i buoni motivi per venirti a seguire...
Perché nel senso più metaforico del termine sono una kamikaze. Questo spettacolo, nel suo senso profondo, più che mai per me vuole essere una bomba che esploda in mezzo alla gente. Spero che ognuno trovi la sua personale Maria dentro di sé, per scuotere quelle voci troppo spesso censurate e taciute, per affondare con coraggio in se stessi e tornare a galla forti delle conquiste che quello sprofondo ha provocato, dandovi frutto nel modo migliore, e non tentando di sedarle nella recondita cassaforte della paura.
Anche per questo non mi stancherò mai di dire che il Teatro è Necessario. Sta a noi che lo facciamo renderlo tale, parlando alla gente, della gente, per la gente. Quindi vi aspetto per prendere parte alla mia piccola grande rivoluzione: banditi i soldati, cerco guerrieri che corrano con me!
Fabio Montemurro
29 gennaio 2016