Intervista a Stefano Patti e Lorenzo de Liberato che ci parlano di Echoes, andato in scena al teatro Studio Uno dal 18 al 22 novembre 2015
Dal 18 al 22 novembre ha debuttato in prima assoluta al Teatro Studio Uno la nuova produzione della Compagnia Marabutti: “E C H O E S” scritto da Lorenzo De Liberato e diretto da Stefano Patti, protagonista in scena insieme a Marco Quaglia. Un lavoro squisitamente originale apre la stagione delle Residenze Artistiche 2015-16 nella Casa Romana del Teatro Indipendente di Torpignattara. Qui le risposte di Patti e De Liberato alle nostre domande.
Parliamo un po’ di voi. Qual è stata la vostra formazione, come vi siete conosciuti e soprattutto come avete incastrato le vostre esperienze teatrali?
Stefano Patti: La compagnia Marabutti è formata da me, Stefano Patti, Lorenzo De Liberato (l’autore di “Echoes”) e da Fabrizio Milano. Ci siamo conosciuti presso l’ACT Multimedia di Cinecittà e specializzati all’AIAD (Accademia d’arte drammatica del Teatro Quirino) e dopo i primi lavori abbiamo costituito l’Associazione Culturale. Abbiamo portato in scena molti testi inediti di Lorenzo De Liberato (“Marabutti”, “Vite private”, “Cyrano”, “Grigio”, “La Patetica”).
La compagnia per noi è una palestra, una piattaforma di sperimentazione; la fortuna di avere un autore (e anche regista) in compagnia permette di metterci continuamente alla prova e, negli anni, migliorarci e rapportandoci spesso con grandi classici (Shakespeare, Rostand, Brecht) ci siamo arricchiti artisticamentecreando una base solida per il lavoro sulla drammaturgia contemporanea. Ognuno di noi ha anche progetti indipendenti dai Marabutti, collaborando con altre giovani compagnie indipendenti; questo risulta indispensabile per trovare sempre nuovi stimoli esterni da portare dentro ai nostri progetti.
Potreste regalarci un breve excursus ripercorrendo assieme i momenti che hanno portato alla genesi di quest’opera, gli spunti e gli stimoli che hanno contribuito ad alimentare un’ispirazione?
Lorenzo De Liberato: Il testo è stato scritto tre anni fa ed è nato (sembra un paradosso) per caso. Probabilmente sono state alcune letture ad influenzarmi, sopratutto autori americani come DeLillo e F.Wallace, ma la verità è che il testo voleva, in un certo senso, trovare un modo universale, accattivante e non banale, per raccontare un aspetto della crisi economica in cui viviamo: la ricerca di soluzioni. Partendo da questa idea il testo si è quasi spontaneamente sviluppato verso una direzione estrema, toccando temi come la violenza, la guerra e il terrorismo che, in un modo o nell'altro (almeno secondo la mia modestissima opinione) sono tutti figli e allo stesso tempo padri della società in cui viviamo.
La trama ha una sua complessità, tocca diverse tematiche senza allontanarsi dalla vicenda iniziale, inoltre la struttura principale è incasellata di personali drammi umani. Tutto questo lavoro è stato messo in scena basandosi molto su una formula che pare essere quella della fiction. Che ruolo ha, rispetto al pubblico e alla comunicazione con esso, l’adozione di questa formula?
Stefano Patti: Il testo di Lorenzo apre molti temi che reputo estremamente vicini a ciò che stiamo vivendo in questi anni, in questi giorni. L’Economia, la Religione, la Politica sono alcune delle tematiche che abbiamo affrontato e che erano supportate da una struttura solida drammaturgica: siamo in un luogo affascinante, un bunker; lo spettacolo inizia con un’intervista tra un giornalista e colui che ha appena commesso una strage. L’intenzione era quella di immergere il pubblico in una situazione drammaticamente intima (grazie alla mano attenta dell’autore, alle luci di Matteo Ziglio ma soprattutto all’attenzione chirurgica di Marco Quaglia per interpretare il protagonista) per dargli la possibilità di assistere ad un incontro/scontro dialettico del quale siamo sempre all’oscuro. La “fiction” diventa così uno strumento interessante per analizzare, assieme agli spettatori, le dinamiche di cui i cittadini, i governi sono intrise e vittime allo stesso momento.
Un ruolo di dominio nello spettacolo è assegnato alla dinamica complessa del potere e il finale resta sospeso come ad indicare una soluzione indefinita alle mille domande di natura politica, filosofica, economica ecc. che si possono porre (e si sono poste) su questa questione. Personalmente però, avete un’opinione che si sbilancia più da un lato piuttosto che dall’altro? Come intendete il potere?
Stefano Patti: Il teatro deve porre domande e mai dare risposte. Questa è la frase che ha accompagnato i miei anni in teatro e grazie a questo progetto mi son dovuto scontrare con questa realtà. Il nostro compito, o almeno quello che abbiamo provato a fare portando in scena “Echoes”, era quello di interrogarci, obbligatoriamente assieme al pubblico, su cosa stesse accadendo attorno a noi. Non sono sicuro di poter rispondere alla domanda, almeno non adesso, ma certo è che mi son continuamente posto questo quesito assieme a Marco Quaglia; lo scontro con questo testo e questi personaggi ci ha posti spesso di fronte ad uno specchio in cui l’immagine riflessa era speso distorta, oscura. La vicenda sembra partire da una dinamica molto banale: bene e male; ma durante lo studio c’è stato un ribaltamento continuo su chi fosse “dal lato giusto” e ciò, a mio avviso, sta a palesare la presenza di qualcosa di marcio in ognuno di noi, che io definirei l’ambizione al potere.
Erika Cofone
26 novembre 2015