Parla ai nostri microfoni Viviana Di Bert, regista di Fuoco su tre Sorelle, che debutterà in anteprima nazionale al teatro Sala Uno di Roma dal 20 al 22 marzo 2015.
Parlaci di questo spettacolo, un buon motivo per venirlo a vedere?
Per prima cosa c’è da dire che chi conosce Anton Čechov potrebbe essere avvantaggiato nel comprendere i meccanismi della messa in scena, ma ritengo che il pubblico sia intelligente e credo che Fuoco su Tre Sorelle possa esser interessante anche per chi non conosce l’autore. In quest’opera Čechov, attraverso delle storie di ordinaria amministrazione, parla dell’incapacità dell’uomo nello stare al mondo ed essere felice.
In che senso?
Čechov racconta questo stato d’animo attraverso dei dialoghi che di primo acchito possono sembrare banali ma che in realtà nascondono una grande profondità. Spesso accade che nel rappresentare Le Tre Sorelle ci si soffermi troppo sulla superficialità dei dialoghi. In realtà questi nascondo la volontà di interrogarsi su di una quotidianità, su di una routine, che sfugge ad un primo sguardo sull’opera.
Quindi come hai affrontato questa regia?
Ci tengo a dire che con questa messa in scena si chiude un cerchio aperto oltre trent’anni fa, quando per la prima volta mi avvicinai a questo autore.
Nella regia di questo spettacolo ho approfondito alcune riflessioni derivanti dalla lettura delle note di regia di Stanislavskij. Ho colto la sua idea di dinamicità degli attori, ma nella mia rappresentazione il palco è vuoto, vi è quindi una modalità scenica diversa da quella di Stanislavskij. A differenza di altre rappresentazioni, nelle quali si mette in atto una sorta di lenta fiction, abbiamo lavorato su di una riduzione dell’opera. Questo lavoro sarà molto più comprensibile per chi conosce bene il testo di Čechov, per chi non l’ha mai letto sarà una vera e propria sintesi. Il concetto di dinamicità della vita viene dato dal modo nel quale gli attori si muovono sul palco. Danno una sensazione di unicità di tempo e luogo, è come se tutti gli accadimenti avvenissero in un tempo ristretto. Si tratta di un lavoro di sperimentazione, che annulla la distanza fra palco e platea e nel quale hanno collaborato nove attori che coraggiosamente si sono messi in gioco.
Come annulli questa distanza fra palco e platea?
In passato ho fatto dei lavori nei quali il pubblico era attivo. In questo caso non sarà possibile vista la location del teatro Sala Uno, che ho scelto per un altro motivo, ovvero l’ottima acustica, una delle migliori. L’annullamento delle distanze si sentirà quindi grazie al movimento degli attori, che causeranno importanti movimenti di rottura scenica.
In che modo metti in scena quell’incapacità del star al mondo di cui parla Čechov?
Non a caso lo spettacolo si chiama Fuoco su Tre Sorelle. Quel fuoco, sta proprio a significare che è stato fatto un focus, un approfondimento su questo aspetto. La difficoltà dello stare al mondo è un tema molto delicato e in tutti personaggi dell’opera sembra legato dallo stesso filo conduttore: tutti sono in attesa di qualcosa che non c’è, che si spera possa accadere, divenire, manifestarsi, ma che alla fine sfugge dalle mani. Un qualcosa di immaginato ma mai realizzato, un eterno rimando che confina l’uomo in un frenetico movimento del quale ha paura, ma è proprio nel movimento che si ha creatività, idee, potere.
Secondo te come percepisce lo stare al mondo Čechov?
Lui era un dottore abituato, nell’epoca in cui è vissuto, a brutalità che nemmeno possiamo immaginare. Conosceva quindi il significato del dolore ma era perfettamente consapevole dell’uguaglianza degli eventi, che essi siano positivi o negativi. Credo che dalla sua esperienza di vita egli abbia colto quest’incapacità nel riconoscere il senso profondo della vita, che non dipende dagli eventi che ci circondano. La differenza sta dentro di noi.
Le Tre Sorelle inoltre è un’opera molto attuale. Čechov utilizza l’esempio del militare perché a fine ottocento, con l’arrivo del nuovo secolo e una fase di pace tutti coloro che vivevano col “lavoro” della guerra si trovano come disoccupati: sembra quasi che l’uomo senza una battaglia, un espediente esterno che lo costringa ad agire, si senta perso. Tematica questa molto attuale perché oggi siamo in guerra come umanità sia dentro che fuori. Čechov voleva in sostanza dire che l’uomo ha necessità di soffrire per stare al mondo. Tutti sperano in qualcosa che non hanno e la guerra ha questa funzione di distrazione, di dare un’illusione di impegno e presenza della vita, che allontana da riflessioni più profonde.
Un’ultima domanda, ci parli della tua compagnia?
Quando ho fondato questa associazione l’ho fatto ragionando molto sulla psicotecnica. Il nostro è un gruppo misto con persone anche non professioniste. Mi sono resa conto che molte persone che fanno altri lavori (proprio come Čechov che era un medico) sono in grado di avere una maggiore sensibilità e bravura di tante altre che fanno l’attore per professione. Un modo questo per rompere anche dall’idea che si possa o debba necessariamente fare l’attore solo per professione, lo si può fare benissimo anche solo per necessità interiore svolgendo un altro lavoro.
Enrico Ferdinandi
5 marzo 2015