Giovedì, 21 Novembre 2024
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Su Macbeth, il teatro e la filosofia. Intervista a Dalila Cozzolino

Dalila Cozzolino, conosciuta per il suo lavoro con la Compagnia Ragli, presenta lo studio Macbeth aut Idola Theatri: progetto vincitore della Residenza invernale Emergenze Romane 2018 – Stagione di Sala RomaTeatri. L’abbiamo incontrata in occasione delle prove per andare in scena mercoledì 28 marzo: per parlare di questo debutto, del perché si sia avvicinata alla regia e di come il suo percorso di studi filosofici la guidi sopra e sotto il palco.

 

Il tuo è un Macbeth davvero tutto interiore.

Perché di Macbeth mi interessa molto questa sua dimensione di quello che non c’è, che poi diventa quello che c’è solo per lui e incontra la riflessione sulla superstizione: chi è superstizioso si prefigura lo scopo di vedere dei segni. Segni che magari non ci sono o che hanno senso solo per chi li definisce tali. La mia formazione filosofica mi ha suggerito un collegamento con Francis Bacon e il suo Novum Organum, dove si parla di quattro idola, pregiudizi che vanno abbattuti se si vuole esperire un fenomeno: uno di questi è l’idola theatri, descritto come la facoltà di immaginare dei mondi fittizi da palcoscenico, una possibilità di vedere la realtà come intrisa di presagi, scopi e fini. Da qui ho pensato a Macbeth e a quella battuta fondamentale  pronunciata dalla terza strega - “Salute a te, che un giorno sarai re” - che lo induce a esperire la realtà come qualcosa di diverso da come faceva prima. A questo punto erompe il teatro: come la dice un attore questa battuta? Dipende tutto da ciò che si decide a riguardo. Accostarsi a Shakespeare implica, in generale, molta responsabilità da parte degli attori: sappiamo che il bardo scriveva i suoi copioni insieme a loro e secondo me ha senso rappresentarlo proprio per la responsabilità imposta a chi lo porta in scena e interpreta le sue parole. E se io decidessi di dire questa fatidica battuta in un modo “impreparato”? Come se questa terza strega non lo sia realmente ma si tratti di una di quelle persone che affermando qualcosa, senza una sua intenzione o scopo reale, ti cambia la vita. Io voglio pronunciare “Salute a te, che un giorno sarai re” con tutta questa incertezza, anzi posso dirlo solo così. A partire da ciò Macbeth interpreta tutta la sua realtà in modo completamente personale e creativo: quello che viene dopo è fatto di visioni che, secondo me, non sono solo gli spettri ma anche gli altri personaggi. Come se il protagonista applicasse un filtro anche a chi ancora esiste. E qui mi viene in mente Schopenhauer e il suo - in risposta a Kant - piccolo “Saggio Sull’Interpretazione Degli Spiriti” dove si afferma che “gli spiriti appaiono esattamente come corpi e i corpi come spiriti”. Di conseguenza tutte le altre figure del Macbeth vengono investite da questo tipo di visione della realtà, che diviene la mia nel momento in cui lo recito e quella degli spettatori che lo vedranno. È questo che voglio sottolineare e capire: come una persona rivoluzionata da un incontro o da una frase possa poi vedere gli altri più che vedere quello che non c’è.

 

Quanto contano i tuoi studi di filosofia nel tuo approccio al teatro?

Non c’è mai una operazione di intellettualizzazione ma c’è un andare creativo del pensiero nel momento in cui ragiono su un testo: fare riferimento a dei filosofi è un processo per me assolutamente spontaneo. Con la Compagnia Ragli lo abbiamo fatto in passato: per esempio con Foucault - lavorando sui concetti di anormalità e potere - ma anche con Giordano Bruno. Diciamo che per me i filosofi  sono degli ottimi suggeritori, che poi non mi porto sul palco ma che mi aiutano a salirci.

 

È noto l’impegno sociale della compagnia di cui fai parte da anni. Ti accompagna anche in questo studio?

Il teatro deve avere sempre a che fare con il sociale, che è presente anche in questo spettacolo: c’è forse un po’ di stacco dalle tematiche concrete che ho già affrontato con i Ragli - come la ndrangheta, la paura del diverso o, vedi il recentissimo Border Line, la xenofobia  – perché stavolta traduco l’impegno sociale con l’analisi delle notizie che arrivano dall’interno riferendosi allo stare al mondo.

 

L’attenzione che in questa occasione riservi alla luce ti serve per tradurre questo gioco tra interno ed esterno?

Essendo da sola in scena mi serve immaginare da dentro e far immaginare da fuori. Ho sempre amato molto sperimentare e lavorare sui mezzi del teatro e sono partita da questo parallelismo tra Macbeth e l’attore che lo interpreta: entrambi vedono e mostrano quello che non c’è. Voglio, quindi, che luce e musica facciano parte della partitura drammaturgica, quasi fossero personaggi. Più praticamente: in questo spettacolo, attraverso la luce scelgo di far vedere una cosa, tagliare le parti del corpo e raccontare un personaggio attraverso una di esse. È come se fossimo nella testa di Macbeth: se illumino un piede e basta per fare Lady Macbeth è come se tutto ciò che lei ha da raccontare fosse concentrato su quel dettaglio anatomico, su cui si fissa il marito. Naturalmente sto incontrando delle difficoltà, che però mi guidano e ispirano a sfruttare la solitudine sul palcoscenico arricchendola con mezzi che non sono più tali e nemmeno pura estetica ma, come dicevo, parte della drammaturgia.

 

 Questa attuale necessità di ritrovarti sola in scena da dove arriva?

Da un percorso di studio, iniziato l’anno scorso, dalla curiosità venuta lavorando come aiuto regista di Davide Enia al Teatro Massimo di Palermo - anche se è sempre grande la tentazione di stare sulla scena. Adesso sto studiando regia alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi e sto cercando di trovare delle domande per affinare lo sguardo registico. Sono arrivata a Macbeth aut Idola Theatri perché volevo preparare un monologo, leggevo un po’ di testi di Shakespeare, ho riletto Macbeth per l’ennesima volta e ho pensato “perché non fare tutte e tre le streghe?”. Magari non è un’idea inedita, Shakespeare è stato rifatto in qualunque modo, l’incontro vero è stata quella fatale battuta: “Salute a te, che un giorno sarai re”.

 

Un dato interessante: tu non cerchi risposte ma domande.

Paradossalmente mi sento sempre più sicura nel cercare domande, che poi possono essere quelle giuste, e non risposte.

 

Cristian Pandolfino

27 marzo 2018

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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