#intervista
Noi de “ La Platea” abbiamo avuto il piacere di intervistare Raffaele Bartoli, regista emergente della scuola Nazionale di Arte Drammatica Silvio D’Amico che con la messa in scena di Filottete di Sofocle è pronto per farsi testimone della sua pennellata teatrale all’interno del panorama contemporaneo. Un lavoro arricchito sicuramente dalla presenza di un attore quale Totò Onnis, il quale si è mostrato sinceramente disponibile e cordiale in una conversazione che non ha riguardato solo il mestiere dell’attore o il lavoro interpretativo inerente allo spettacolo, ma si è discusso anche di come il lavoro del teatro, senza dubbio, abbia a che fare con il mestiere della vita.
Appena incontrati i due artisti l’atmosfera si presenta come familiare. Il regista e l’attore si trovano seduti ad un tavolo dove fino a poco tempo fa si stava discutendo del lavoro, questa immagine sembra subito adatta a spiegare la qualità della dedizione al lavoro e la volontà da parte di entrambi di creare uno spettacolo che parta in primis dal valore comunicativo e umano che si instaura dal rapporto personale. Ci incontriamo, ci presentiamo e ci si sorride tutti e con il sorriso cominciamo a fare qualche domanda che ci fa esplorare e ci conduce all’ interno di questo spettacolo, che andrà in scena dal 8 al 15 febbraio al Teatro Eleonora Duse di Roma.
Quali sono i punti drammaturgici sui quali lo spettacolo si evolve ?
“La struttura dello spettacolo spazia dalla satira alla tragedia non concludendosi però definitivamente in nessuno dei due stili. Infatti la scelta di questa opera ha che fare anche con la struttura del testo Sofocleo. Seppure l’ambientazione poetica soddisfi le condizioni dello stile tragico, gli avvenimenti sembrano volere farci cogliere sempre ad una possibile risoluzione di questa tragicità. Questo sottolinea come quello che si vuole comunicare non è tanto il fine tragico della vicenda, ma il senso tragico dal punto di vista esistenziale che Filottete vive nel corso della storia e come quello che subisce questo personaggio sia un po’ la metafora di quello che può subire ogni essere umano”.
Quali sono i fattori di maggior rilievo che riguardano questo tuo primo lavoro registico di una certa importanza?
“Ho cercato di affrontare il lavoro affacciandomi ad una regia evanescente. Con questo voglio dire che non mi introduco al centro del lavoro e impartisco direzioni che partono dall’ interno dello spettacolo. Molto importante è quello che mi comunicano gli attori quando sono quasi in disparte ad osservarli, come ogni linguaggio drammaturgico si sviluppa e si intreccia, così da potere avere sempre nuovi stimoli dal lavoro degli attori e per poter garantire una qualità del lavoro più completa; tenendo conto anche delle mie esigenze riguardanti l’espressione artistica”.
Tenendo conto del tuo approccio registico con l’opera e con gli attori in quale modo vanno evolvendosi le tue scelte registiche?
“Come già detto ho un approccio registico che interagisce molto con ogni proposta di tipo attoriale e mi faccio suggerire idee anche da ciò che mi comunica la scenografia e i costumi; così da poter eliminare ogni tipo di autorialità. In questo percorso mi piacerebbe giungere al definitivo contatto tra l’opera teatrale e le persone. Partire da un contatto con l’opera in cui possa assorbire ogni suggestione che mi viene comunicata in maniera sincera in modo da poter riportare tale processo al pubblico, che in tali circostanze non può fare a meno di essere coinvolto emotivamente. Esplicitare nel rapporto attore-spettatore una comunicazione che viaggi su un livello emotivo consono ad emozionare in modo sincero lo spettatore”.
Se dovessi scegliere una tematica che sia riconosciuta come un punto di partenza dell’opera quale sceglieresti?
“Tenendo in considerazione di come comincia l’opera di Sofocle ci soffermiamo subito sul senso dell’abbandono, che è immediatamente espresso dall’inizio dell’opera. Anche questo senso di abbandono che prova Filottete mi ha suggerito di lavorare in una modalità che indirizzasse l’opera ad avere subito un contatto con il pubblico. Ma oltre all’abbandono vi sono altri valori che mi sono sembrati coerenti con quanto l’opera volesse esprimere, questi sono i valori di giustizia e convenienza. Per tutta l’opera questi due valori sembrano che vivano in contrasto se si tiene i considerazione l’evolversi della storia. Ciò che è interessante è che ciò che determina questi due valori è un senso eroico che non è accostabile all’epica ma si riferisce più alla realtà dei fatti che vivono i personaggi e questo per quanto riguarda il lavoro registico mi ha indirizzato su una visione più pragmatica del lavoro”.
Proseguendo l’intervista abbiamo fatto anche alcune domande all’attore protagonista Totò Onnis, interprete della tragedia sofoclea.
In che modo si è avvicinato a questo lavoro tenendo in considerazione quelle che sono le dinamiche del mestiere dell’attore?
“ Sicuramente parto dal pensare che nell’approccio a questo lavoro non bisogna avere risposte pronte, ma bisogna farsi delle domande, interrogarsi in modo da trovare all’ inizio sempre più possibilità per la ricerca del personaggio e strade sempre più reali e coerenti con quello che si intende esprimere. L’iniziale approccio al lavoro parte dal contatto con il testo fin quando quest’ultimo non diviene un passaggio in un contesto drammaturgico e di costruzione del personaggio, che ti porta alla consapevolezza che questa tragedia non fa apparire gli uomini come dèi, ma come semplici mortali. In questa realisticità la costruzione del personaggio assume un carattere più terreno e di conseguenza anche l’interpretazione diviene più vicina a quella di un personaggio reale, a tal punto da potere trovare anche alcune similitudini con il mio modo di essere.
Questo modo di costruire il personaggio possiamo ritenerlo come uno stile adatto a creare il suo lavoro attoriale?
“Non so se si può parlare con esattezza di uno stile, normalmente quando mi approccio a questo tipo di lavoro di costruzione è il personaggio che si avvicina a mee non sono io che vado incontro a lui. E’ come se guardassi il personaggio in lontananza e riuscissi a cogliere alcune caratteristiche, che faranno parte di quello che andrò a costruire. Comunque penso che recitare significhi non badare allo stile, in quanto il termine stile comporta una finzione che non giova né all’attore né allo spettacolo e in questo lavoro cerchiamo assolutamente di evitarlo”.
Nel corso del suo percorso artistico quali sono i cambiamenti che ha potuto notare su se stesso?
Quando ho cominciato a fare questo lavoro ho vissuto quella che era considerata l’utopia del teatro, ovvero pensare alla possibilità di poter cambiare il mondo. Ovviamente ho capito che questa potesse essere una cosa difficile da realizzare, ma mi ha fatto riflettere sulle modalità di questo lavoro, il quale non l’ho considerato solamente come una pratica artigianale ma come un lavoro che principalmente servisse a far maturare e arricchire la persona. Negli approcci ai lavori mi sono reso conto che il testo diventa un pre-testo per parlare anche di noi stessi e come la possibilità di poter stravolgere un testo è possibile solo a patto che ci sia una costruzione creativa, ma dal carattere realistico tra ciò che è detto dall’autore del testo e ciò che esprime l’interpretazione dell’attore. In un’epoca in cui chiunque voglia farsi attore diviene sempre più difficile svolgere questa professione in una maniere che faccia capire quali sono realmente i valori e i compiti che debba soddisfare questo lavoro.
Emiliano De Magistris
16 gennaio 2017