Da Vicenza a Roma per il Roma Fringe Festival, la compagnia exvUoto ha portato in scena un lavoro dalla personalità marcata che ha mosso curiosità tanto da voler sviscerarne un po’ di più i restroscena. Durante una chiacchierata con Andrea Dellai e Tommaso Franchin abbiamo parlato e scoperto un po’ di più su Sister(s) e su questi giovani artisti.
Conosciamoci meglio. Chi sono gli exvUoto?
Gli exvUoto teatro sono un collettivo di artisti che si raccolgono attorno alle idee progettuali di Andrea e Tommaso e che insieme a loro le sviluppano. Da una buia cucina al pianterreno (un condono che doveva essere una cantina), nascono fiabe contemporanee che si nutrono di questo substrato e lo raccontano attraverso metafore tanto ingenue quanto sconsiderate. Lucida follia e bisogno spasmodico di allontanarsi dalla realtà (non per fuggirla ma per vederla meglio) sono le linee guida dei nostri progetti. exvUoto è un luogo di frontiera, di passaggio.
exvUoto è il nostro tentativo di rimanere aggrappati alle palpebre di bambini troppo impegnati a sognare per osservare il casino del mondo: vorremmo tanto guardare il mondo con uno sguardo capace di trasmutare le cose (e le persone). exvUoto è il nome che ci diamo per poter fallire. Cadiamo ma ci rialziamo. A piccoli passi abbiamo capito cosa realmente vogliamo: raccontare. Raccontare storie diverse, occhi diversi, amori diversi, persone diverse. Non vogliamo raccontare questo mondo così com’è: non ci piace. Lo coloriamo, lo pimpiamo, lo rendiamo un po’ più vero.
Andrea, mi accennavi che il vostro è un teatro tendente allo scucirsi e scollarsi di dosso qualunque tipo di etichetta, ma se dovessi definire il vostro linguaggio teatrale come me lo descriveresti?
Poco tempo fa mi chiesero di definire il mio stile teatrale. A farlo era un operatore che mi stava valutando per un premio importante. Ti devo dire la verità: ci rimasi molto male. Talmente male che dissi che mi era impossibile poter soddisfare la sua richiesta, che riuscire a raccontare il proprio stile a trent’anni equivaleva per me a sentirmi già morto. Non vinsi nulla. Dopo questo piccolo aneddoto, posso (forse) parlarti del nostro linguaggio. È magmatico. Si muove e ribolle senza dare mai adito a immagini precise, definite. Mi spiego. Quando scrivo o quando immagino, riemergono dalla mia memoria immagini, parole, situazioni che non ricordo più se appartengono alla mia vita, ai miei sogni notturni o alle vite che ho letto o visto proiettate da qualche parte. So che questa nuova immagine che ho in testa è proprio quella che mi serve per il giusto andamento della storia. So che nella vita nessuna decisione è orientata verso un senso, che in tutti i giorni della mia vita mi è capitato assai raramente di agire o pensare in maniera sensata. So che un linguaggio ordinato è solo una grande bugia. Amo l’anarchia brutale in cui siamo invischiati, amo perdermi nelle parole, nei miei deliri fino a trovarne un lume di senso. Ringrazio i miei compagni grazie ai quali posso dire che il nostro è sempre anche uno scrivere collettivo. Creo ibridi, mi diverto tantissimo. Gioco. Sì, amo giocare. Cerco di sparire come fanno i bambini dietro l’immagine dei loro giochi. Sono un attore, in fin dei conti. Per me i personaggi sono frutto di reazioni, più che di pensieri o di psicologia: reazioni chimiche dovute a un ambiente, al ritmo di una parola, alla velocità di un’associazione di idee. Per me lo spettatore deve essere come il vicino di casa di un assassino da rotocalco, quello che dice fintamente stupito: “Era sempre stato una brava persona”. Il nostro teatro vuole sfidare a degli indovinelli. La Sfinge, in fin dei conti, era una meravigliosa creatura composta di almeno tre animali, dico bene? La parola è caos. E lo spettatore, se vuole, può essere il mio Edipo. Un Edipo curioso di vedere dove finisce il pozzo.
SISTER(s) ha una trama che include diversi elementi, assieme a un substrato psicologico che vuole emergere e si mantiene in tutto lo spettacolo. Raccontateci un po’ la genesi dello spettacolo.
Lo spettacolo nasce durante un viaggio in pullman da Vicenza verso un comune molto vicino, che si raggiunge attraversando una zona industriale. Una grigia e anonima zona industriale. Il Veneto sa essere molto noioso, a volte, e io sono uno che pensa molto guardando dal finestrino. Era primo pomeriggio e mi sono messo a riflettere sul motivo per il quale di fronte a mia madre non mi fossi mai dato una definizione precisa. Che lo vogliamo o no fuggiamo sempre le definizioni. Ho sempre dichiarato che mai le avrei detto: “Sono gay”. Troppo limitante, troppo incasellante, bla bla bla … Poi, invece, durante questo viaggio, ho pensato che no, che forse non glielo volevo dire anche perché avrei avuto un po’ di paura anch’io, in fondo. Paure che, di conseguenza, proiettavo poi su mia madre (ignara di questo articolo, tra l’altro). La cosa che secondo me poteva metterla in crisi era quella di considerarsi lei stessa madre di un figlio omosessuale. La madre di un figlio omosessuale è la stessa di prima? Deve essere diversa, sì, per forza. Avrebbe avuto voglia di rimettersi in discussione, di guardare il mondo con occhi diversi? Io sono disposto a cambiare le coordinate del mio mondo a favore del cambiamento un amico, di un’amica? Sì, ho proprio pensato che a muovere i venti dell’intolleranza sia spesso la paura della nuova definizione che gli stessi intolleranti devono dare di loro stessi una volta a contatto con il diverso. Quel comune molto vicino a Vicenza verso il quale stavo dirigendomi a bordo del bus si chiama Alte Ceccato. Alte Ceccato è una strada, con a lato innumerevoli distributori di benzina. Ho pensato come doveva essere per una donna fare quel lavoro. Quanto il ruolo poteva influenzare il genere. Mi sono immaginato, allora, una donna sporca di benzina ma con le unghie laccate di rosa. Ho pensato a quanto grigia e noiosa fosse quella parte di provincia. Ho fatto scattare il miracolo. L’ho innaffiato di birra. Ho fatto diventare la benzinaia una ruvida oltranzista e al fratello ho messo in testa un velo da suora. “Sbrigatevela voi”, ho pensato, “a me piace fare casino”. Ecco, tutto questo ho pensato. Ho colorato un po’ la mia provincia. Perché così, in fondo, anche mia madre si divertirebbe un po’ di più. Ne sono sicuro.
Riferimenti e influenze importanti che hanno arricchito lo spettacolo?
Abbiamo letto molti libri sul queer, e sul pensiero anarchico ad esso sotteso. Ci fa impazzire.
(Andrea): Sto cercando di approfondire il discorso sui corpi transgender, è veramente molto interessante: corpo-frontiera, corpo-sperimentazione, corpo-possibilità. Corpo-rifiuto e corpo-fallimento. È un mondo. Trovo il film Natural Born Killers (Oliver Stone), il nostro film di elezione. Solo la prima volta che lo vidi, giuro, capii il senso delle immagini frammentarie montate in successione (quelle che interrompevano il flusso della storia); poi basta. Io e Tommaso compimmo un viaggio a Medjugorje che ci diede l’illuminazione. La Madonna lì è dovunque e sempre. Non è un evento. È un’abitudine. È un marchio. Forse dovrei anche ringraziare il mio vecchio prozio prete senza il quale non avrei avuto l’educazione cattolica con la quale sempre e comunque devo fare i conti, perché il periodo 0-6 anni segna drasticamente chi sei e chi sarai. Tommaso, poi, ha fatto il chierichetto, fino a raggiungere i piani alti del mestiere (“ok, agitavo il turibolo per affumicare meglio la cantoria” ci tiene a sottolineare Tommaso). Accettare tutto questo fa parte del nostro essere Andrea e Tommaso. Ho letto un bel libro di Galimberti, Orme del sacro: mi è servito a ricordare l’inafferrabilità dell’agire divino. A chi mi dice che ho scritto uno spettacolo sacrilego consiglio sempre questa lettura. E per finire, non posso non ricordare che, durante il periodo di prove dello spettacolo, in America si consumava la grande ascesa di Trump e dei suoi sostenitori: i ritratti di Allison e Bruno devono molto a quei giorni, a quei volti, a quegli slogan.
(Tommaso): mi sono sempre piaciuti gli ibridi, per questo mi attira il mondo queer. Sono cresciuto guardando Roger Rabbit e Il Cielo Sopra Berlino: follia e poesia. Ho consumato quelle VHS, e anche quella del Barone di Munchausen di Terry Gilliam, capolavoro assoluto nel narrare la lotta tra razionalità e fantasia. A me piacciono le favole, dove tutto è possibile ma stranamente plausibile. Abbiamo divorato film americani come The Straight Story (Lynch) e Paris, Texas (Wenders), da qui è nata la nostra Rovigo, Alabama: il Polesine è sterminato, struggente, malinconico. È un luogo lontano, ai margini, immutato. Era perfetto per Bruno ed Allison, che al posto di carburarsi con lo spritz bianco, si sniffano (con uguale frequenza) la benzina.
Uno spettacolo con tinte psichedeliche e allucinogene, dove vuole arrivare, cosa vuole trasmettere?
Innanzi tutto vuole divertire. Vuole dar spazio al sogno. Vuole concedere speranza. Vuole dare un pizzicotto alle persone e dir loro che la finiscano di fare i seri e i compunti, che questo mondo lo possiamo cambiare solo se ce ne fottiamo e cominciamo a pensare che veramente ancora tutto è possibile. Nel piccolo o nel grande non importa. La nostra piccola rivoluzione possiamo farla ogni giorno, rischiando anche di rimanere da soli per un po’, forse. Anzi, sarebbe una mistificazione dire che non è così. Certo: attraverseremo la solitudine. Il deserto (ecco che ritorna la simbologia cristiana). Ma se abbiamo la forza di cambiare noi stessi, prima o poi qualche altro matto lo incontriamo. Dobbiamo far saltare le categorie. La morale che travestita da etica ormai ci impedisce qualsiasi mossa. Il giusto o lo sbagliato non esistono. Ci sono le convenzioni, quello sicuro. Ma dobbiamo smetterla di farci dire come e chi dobbiamo essere. Solo così riprenderemo il controllo di noi stessi. Io voglio essere un pirata, ad esempio. Vieni con noi? Tanto fra un po’ finisce il mondo.
Altri progetti in cantiere?
Siamo al lavoro sul progetto Mappature emotive di un territorio, che è nato proprio agli inizi di Settembre grazie alla residenza a Verdecoprente (Lugnano in Teverina, Terni). È un progetto che racconta i luoghi, le emozioni che li attraversano e quelle che suscitano. Da una parte intervistiamo gli abitanti del paese o del quartiere, dall’altra spendiamo molto tempo passeggiando, sedendoci a caso su qualche panchina, bevendo caffè e chiacchierando con il primo paesano che capita: scopriamo i personaggi notevoli, le vincite al gratta e vinci, i soprannomi e i dissapori. Facciamo finta di essere un po’ Miss Marple, insomma, registrando sensazioni, riflessioni, immagini. Poi, a bordo di uno scuolabus (proprio come una gita, con tanto di tappe nei luoghi emotivamente salienti) restituiamo il nostro lavoro al pubblico e lasciamo nascere un dialogo tra noi e gli abitanti e i partecipanti da fuori città: sul pulmino si chiacchiera di luoghi, di idee. Sono nate belle riflessioni assieme alle persone che hanno assistito allo spettacolo. Molti spettatori/abitanti ci hanno ringraziato per aver permesso loro di soffermarsi su cose, spazi, luoghi, panorami che l’abitudine aveva loro velato. Pensiamo che anche questo possa essere un modo di creare comunità, o come si dice ora, cittadinanza attiva.
Infine, vogliamo far diventare SISTER(s) il primo capitolo di una trilogia di fiabe contemporanee e siamo al lavoro su un’altra favola che manterrà i legami con la realtà pur stravolgendone i confini. Ti diremo solo un nome: Igor.
Erika Cofone
25 settembre 2017