Recensione dello spettacolo Relative Collider in scena al Teatro Vascello il 28 e il 29 ottobre 2016
Ricerca scientifica e scrittura coreografica, danza e matematica, informatica ed arte, questi sono i dualismi, apparentemente incolmabili, che magicamente riescono ad essere coniugati nelle opere di Liz Santoro e Pierre Godard, artisti che arrivano a creare un’alchimia quasi perfetta tra questi opposti ingredienti.
Lei: un passato da ballerina nella Boston Ballet School, successivamente abbandonato per dedicarsi agli studi in medicina e neuroscienze presso l’Università di Harvard. Studioso di matematica applicata e finanza presso l’Université Paris-Sorbonne, lui. Una formazione nell’ambito di materie scientifiche, per entrambi, poi affiancata dalla passione per la danza contemporanea e per il teatro. Da questi presupposti nasce, cinque anni fa, questa collaborazione, nella quale la scienza è il punto centrale della poetica, in cui si può chiaramente leggere la rigorosità di un’impostazione matematica, senza mai tralasciare, però, anche un’estrema attenzione agli aspetti sensibili e formali dello spettacolo coreografico.
Relative Collider è il secondo lavoro del duo, presentato al Teatro Vascello dal RomaEuropa festival, un lavoro contemporaneo e forte, semplice ma di lettura non univoca. Il titolo è una metafora inventata per la scena teatrale, dove spettatori e artisti, si lanciano in rotta di collisione come particelle nel momento dello scontro.
Un metronomo scandisce il tempo di tutta la performance, accompagnato, da un certo punto in poi, dalla voce di Godard che ripete parole estratte dall’archivio da lui stesso creato “Gutemberg Project”. Poi, un rumore quasi assordante che rompe la calma, quasi magnetica, creata dai suoni costanti della battitura del tempo. I ballerini si muovono, dapprima, con passi meccanici e matematici, come frammenti di uno sconosciuto ingranaggio, per poi svilupparsi pian piano in movimenti più sciolti. Se prima le direzioni sono geometriche, in seguito, diventano circolari, per poi trasformarsi in gesti casuali, quasi liberi. Serie di movimenti ripetuti che si fanno nella mente dello spettatore una ripetizione riconoscibile, in otto tempi. I tre ballerini in scena si sfiorano ma non s’incontrano mai, non si guardano ma sono perfettamente in tempo tra loro, ognuno per la sua direzione, come se fossero guidati da forze esterne, al limite dell’alienazione.
Uno spettacolo attuale che ipnotizza il pubblico, ne cattura la mente, lo culla. Una coreografia che ci spinge a cercare di attribuirle una lettura del tutto personale, e che rimane nella mente, come una nenia, si riproduce, senza volontà, nei meandri del nostro inconscio e non ci abbandona.
Greta Giammarioli
31/10/2016