Venerdì, 21 Febbraio 2025
$ £

In occasione del centenario della nascita del Surrealismo, tributo a Dalì tra sacro e profano

Recensione della mostra Salvador Dalí, tra arte e mito al Museo storico della fanteria di Roma dal 25 gennaio al 27 luglio 2025 a cura di Vincenzo Sanfo

 

 “Io credo al futuro risolversi di questi due stati apparentemente così contrastanti-sogno e realtà-in una specie di realtà assoluta, di surrealité”

                                                                                    Breton, Manifesto surrealista

 

Per la corrente surrealista, accanto al mondo reale le cui logiche si costruiscono sulla razionalità, esiste un mondo altrettanto reale in cui l’immaginazione, l’intuizione, le esperienze del sogno, le associazioni spontanee dell’inconscio diventano materiale prezioso, ossia oggetto dell’indagine e della rappresentazione dell’artista. Le immagini irrompono liberamente in un flusso da cui emergono moti dall’oscuro regno degli istinti, della libido personale, dell’inconscio; si ricerca “l’assurdo” insito nel presunto mondo del reale. Salvador Dalì rintraccia in questa modalità creatrice, qualcosa che gli è profondamente congeniale e che diventa anche il suo personale stile di vita. Utilizza gli elementi del quotidiano estrapolandoli dal loro consueto contesto per consegnarli a nuova vita in una dimensione onirica, allucinata, caotica, a tratti grottesca, liberando il lato assurdo del reale attraverso un inquietante illusionismo.

La mostra attualmente in corso al Museo storico della fanteria Salvador Dalí, tra arte e mito, a cura di Vincenzo Sanfo, tocca aspetti meno conosciuti della produzione artistica di Dalì ma che non smentiscono la cifra stilistica dell’autore. Nello spazio introduttivo, sprazzi della creatività surrealista giungono attraverso assaggi delle opere di Mirò, Man Ray, Chagall e, in particolar modo, dell’italiano Stanislao Lepri che privilegia una figura umana sfocata nei toni del bianco che si staglia su uno sfondo scuro, al punto tale che i tratti umani diventano impercettibili, quasi sparisce la corporeità a favore di un’atmosfera trasognata ed onirica. Segue un ampio spazio dedicato alle litografie di Garcia Lorca, decisione non casuale: intimo amico di Dalì, ha intrattenuto con l’artista un rapporto morboso, complesso e tormentato ma proficuo sotto il profilo artistico. Di lui osserviamo le inedite opere grafiche di dimensioni ridotte, la cui figura umana è rappresentata da un tratto nero, essenziale su una base dai toni tenui, deformata dalla fantasia del poeta che lascia lo sguardo senza gli occhi. A fargli da controcanto, la proiezione di filmati estratti da film di Bunuel, altro amico intimo di Dalì, anch’egli personalità influente sulla vita dell’artista al pari del poeta Lorca. A seguire il cospicuo ciclo di acquerelli incisi in legno a colori in quarto interamente dedicati all’illustrazione della Divina Commedia.

Il pittore della fantasia senza inibizioni incontra in maniera inaspettata la materia sacra partorita da Dante con risultati sorprendenti, a tratti poetici, a tratti allucinatori come tutta la sua arte. Sarebbe stato impossibile aspettarsi un impianto interamente naturalistico, l’Aldilà dantesco subisce la trasformazione dell’occhio allucinato di Dalì con sagome allungate, deformate, calate in un’atmosfera onirica. Questo processo giunge a compimento ne Il morso di Gianni Schicchi attraverso l’immagine delirante di figure molli, allungate, deformate. L’uso del colore varia in base alle tematiche, in alcuni casi è tenue, delicato, sfumato verso toni delicati, in altri acceso, brillante come nella Cascata del Flegetonte. Nella sezione incentrata sul Paradiso, l’uso del colore si adegua alla cantica con prevalenza dei toni dell’azzurro, dell’indaco, del viola come nel caso de Il gaudio dei beati. La fisicità è restituita da leggeri tocchi di colore delicati. Vette di pura poesia si raggiungono nell’immagine dell’incontro tra Dante e Beatrice: anche se il punto di vista dell’osservatore si trova dietro di loro, riesce a trasmettere tutta la dolcezza, la tenerezza e l’emozione della vicinanza dei corpi che si abbracciano, con lo sguardo proiettato verso uno spazio lontano indefinito. Ad arricchire l’esposizione anche sculture in bronzo come la Visione dell’angelo o, a fine mostra, Space Elephant in bronzo e cristallo; troviamo anche la serie di piatti Le Arti, decorati con serigrafie e col bordo in oro zecchino. Non mancano illustrazioni in bianco e nero su fogli sciolti. Infine a chiudere il percorso una delle opere simbolo delle facoltà deliranti e allucinatorie dell’artista: Il grande masturbatore esposto su un grande arazzo al centro dell’ultima sezione. La lente deformante di Dalì riporta un’immagine irreale in cui da un lato si staglia una coppia che evoca la fellatio, dall’altra parte un viso capovolto a cui è attaccata una cavalletta col ventre ricoperto di formiche. Si sprigiona così l’energia primordiale della psiche declinata attraverso l’eros espresso dai simboli fallici e dalle libere associazioni presenti nell’opera.

Alla fine dell’itinerario espositivo, resta l’impressione che la scelta delle opere e l’allestimento abbia il merito di portare a conoscenza del grande pubblico aspetti della produzione artistica di Dalì meno noti al grande pubblico, anche se qualche criticità si ravvisa nella selezione delle opere troppo ristretta a tal fine e nella dislocazione in spazi angusti del museo in cui non viene valorizzata la presenza delle didascalie. Per gli appassionati del settore, rimane comunque un’occasione da non mancare.

 

Mena Zarrelli

12 febbraio 2025

Logoteatroterapia

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

Newsletter

Iscriviti alla nostra newsletter per scoprire gli sconti sugli spettacoli teatrali riservati ai nostri lettori

Search