Recensione della mostra Luciano Salce: L’ironia è una cosa seria presso Palazzo Firenze dal 25 settembre al 6 ottobre 2019
Nell’atmosfera silenziosa e surreale di uno degli ultimi scorci di settembre, ha luogo nel Palazzo Firenze l’esposizione dedicata al grande regista, attore e scrittore Luciano Salce (1922- 1989), organizzata dal figlio Emanuele Salce.
Disposti lungo il perimetro del porticato, trentasei pannelli distribuiti in dodici postazioni trilaterali assecondano un ordine cronologico. Questi raccontano l’uomo ancor prima dell’artista, quasi a sottolineare come il visibile sia riflesso e, a volte, conseguenza della propria storia personale. L’evoluzione del percorso umano ed artistico viene descritta nelle singole tavole attraverso eleganti ed esaustive didascalie supportate da foto e preziose documentazioni cartacee.
Tale racconto sembra non a caso indugiare sul periodo inerente l’infanzia e la gioventù di Luciano Salce, come imprescindibile premessa per capirne l’artista. La perdita precoce della madre, Clara Sponza, il periodo spensierato trascorso a Feltre, dove fu allevato dal padre e dalla nonna, e il suo vissuto di figlio rifiutato dal padre Mario da cui veniva implicitamente accusato della morte della moglie, sono elementi che incideranno sul suo modo di essere. I pannelli immediatamente successivi, come pagine di quei libri da cui si viene rapiti perdendo cognizione del tempo, ci accompagnano delicatamente verso la circumnavigazione di altre tappe fondamentali della vita dell’artista.
Costeggiando il periodo inerente la frequentazione del Nobile Collegio di Mondragone, approdiamo all’Iscrizione all’Accademia di Arte Drammatica nei primissimi anni ‘40: alcuni compagni di corso, Adolfo Celi e Vittorio Gassman su tutti, rimarranno figure imprescindibili nella sua vita. Particolarmente gradite le foto del materiale cartaceo inerente la domanda di iscrizione all’Accademia da parte dello stesso Salce, la relativa tessera dell’Accademia e fotografie con i colleghi del corso. Tremendo e indelebile il biennio 1943 - 1945 con la chiamata alla leva, la sua cattura a opera dei tedeschi prima a Modena e poi in Baviera, il suo tentativo di fuga e una nuova prigionia a Salisburgo terminata il 30 aprile 1945. Commovente e delicata la lettera scritta alla nonna durante il periodo di prigionia a Modena in cui la rassicura sulle sue condizioni chiedendole di informare anche il padre presumilmente preoccupato dalla sua assenza. Sfogliando i pannelli di questo libro del tempo, vediamo il giovane Salce debuttare al cinema nel 1946 con: Un americano in vacanza, diretto da Luigi Zampa, ed esordire nelle sue prime esperienze registiche teatrali, sempre più orientate alla commedia di carattere, fino al debutto nel teatro professionista con la rivista intellettuale: “...E lui dice”.
Proseguiamo il viaggio nella vita di Luciano Salce mentre risuona nel cortile la sua voce, proveniente dalle casse di un monitor di una sala interna, quasi ad accompagnarci con la sua consueta ironia e austerità nel percorso della mostra, arricchendola di autenticità.
Il 1950 di Salce è caratterizzato dal suo trasferimento in Brasile, su invito dell’amico Adolfo Celi, dove assume la direzione artistica del Teatro Brasileiro de Comedia lavorando anche per la televisione; si fidanza inoltre con Joe Bartolazzi che sposerà cinque anni più tardi, dopo essere rientrato in Italia nel 1954. Le tavole con relative fotografie ci parlano di numerose esperienze radiofiniche, nel teatro dei Gobbi, e teatrali, fino ad affermarsi come regista cinematografico con il film: Il Federale (1961) per poi continuare con: La voglia matta (1962) e Le ore dell’amore (1963).
Successivamente il percorso sfuma in una immaginaria seconda parte caratterizzata prevalentemente dalla filmografia, pur senza trascurare le esperienze televisive dell’artista in veste di conduttore tra cui ricordiamo: Studio Uno (1965-1966). Contestualmente, naufragato il matrimonio, Salce inizia una nuova relazione con Diletta D’Andrea dalla cui Unione nascerà, il 7 agosto 1966, Emanuele.
La cinematografia di Luciano Salce in veste di regista sfugge e si divincola da asettiche classificazioni di genere, riunendo sempre diverse sfumature e contaminazioni, riflesso della polifonia dell’animo umano. Per tali ragioni, anche quella che sembrano essere commedie leggere celavano un retrogusto malinconico, specchio di una rispettosa e silenziosa riflessione, da parte di Salce, sui risvolti delle umane vicende. Egli fu soprattutto un attento scrutatore della realtà di cui riusciva a cogliere il “non immediatamente visibile” sapendone intercettare il lato comico ed umoristico anche attraverso l’esasperazione e la ridicolizzazione di quello drammatico di cui l’essere umano è artefice. Il Prof.Dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue (1969), Fantozzi (1975), Il secondo tragico Fantozzi (1976), sono solo un piccolo emblema dell’elemento rivoluzionario immesso nel modo di interpretare i costumi italiani dell’epoca, cogliendone le contraddizioni e sapendo ridere di queste. La sua sfida personale, come egli stesso dichiarò, non consisteva, infatti, nel dirigere film sofisticati ed impegnati, bensì nell’uso di un linguaggio narrativo ed espressivo ancora inedito per l’epoca. Il regista secondo la filosofia di Salce doveva rimanere meno contaminato possibile dalla realtà circostante, perchè il cinema che egli sarebbe andato a raccontare doveva nascere dalla propria intimità e dal proprio “sentire” senza riferimenti con il già noto. Solo ciò che fiorisce ingenuamente da dentro troverà poi un seguito anche fuori, perchè la realtà va inventata e non fotografata.
In prossimità della fine del percorso nei meandri della storia umana ed artistica di Luciano Salce, un enorme pannello rettangolare disposto orizzontalmente raccoglie un collage di sequenze fotografiche. Queste ritraggono l’artista negli istanti di vita privata, spesso al timone della sua barca, alternati ad immagini relative a momenti “lavorativi” teatrali e cinematografici. Egli stesso, infatti, volle come epitaffio: “Fui uomo di spettacolo e di mare”. Tuttavia, tale pannello dai risvolti caotici, sembra interrompere il naturale fluire del percorso storico e delle emozioni ad esso associate, risultando forse troppo imponente.
Una sala interna racconta con delicatezza e sensibilità il lato privato dell’artista, raccordandosi idealmente con i primi pannelli narranti la storia personale di Salce. Tale allestimento interno è caratterizzato da locandine originali di alcune regie teatrali, una poesia scritta da Vittorio Gassman e donata all’amico, il libro scritto a quattro mani con lo stesso Gassman: L’Educazione Teatrale (pubblicato solo nel 2004), ed altri momenti di poetica semplicità. Una seconda sala ospita prevalentemente il monitor tramite cui viene proposto, senza soluzione di continuità, il materiale video appartenente alle teche RAI e ISTITUTO LUCE, da cui sentivamo riecheggiare all’esterno la voce di Salce. È avvertibile, in questo ultimo frangente, una mancanza di adeguata valorizzazione di tale risorsa televisiva. Questa sembra essere stata lasciata forse troppo “sola” ai margini della mostra, senza un’appropriata strutturazione delle sequenze video che avrebbe così evitato quella sensazione di leggero disordine.
Si esce da Palazzo Firenze con un corposo senso di appagamento dal sapore decisamente gradevole. Le diverse tonalità emotive con cui è stata elegantemente allestita la mostra ci hanno permesso di apprezzare la profondità della persona. Ci siamo sorpresi a ridere e commuoverci, al pari di certe commedie ideate da quell’uomo dallo sguardo da duro... come quando si diviene artificiosamente seri per trattenere una beffarda risata.
Simone Marcari
1 ottobre 2019