Recensione delle mostra Treasures from the wreck of the unbelievable ospitata presso Palazzo Grassi – Punta delle Dogana, Venezia dal 9 aprile al 3 dicembre 2017
Da qualche parte tra menzogne e verità sta la verità.
È questa la frase che accoglie i visitatori a Punta della Dogana, appena entrati nella nuova esposizione dell’artista inglese Damien Hirst. Estesa fino alla sede di Palazzo Grassi, la mostra è un evento senza precedenti che occupa 5.000 metri quadrati ed espone oltre 180 oggetti.
Un percorso di tale portata non si era mai visto: dieci anni di gestazione, quattro mesi di allestimento, costi di produzione milionari. Il tutto per narrare la storia dell’antico naufragio della grande nave ‘Unbelievable’ (Apistos il nome originale in greco antico) ed esibire il prezioso carico riscoperto nel 2008 sulle coste orientali dell’Africa: l’imponente collezione sembra sia appartenuta al liberto Aulus Calidius Amotan, conosciuto come Cif Amotan II. O, almeno, questo è ciò che ci racconta Hirst. E in effetti visitando le due sedi ci si trova di fronte a centinaia di oggetti chiaramente ritrovati in fondo al mare. A palazzo Grassi si è accolti dalla statua gigante di un demone senza testa alta quasi 4 metri e il viaggio continua tra presunti reperti, più o meno antichi: monete perfettamente catalogate, bronzi, teste di medusa, enormi statue che rappresentano miti greci, un’intera stanza con disegni “leonardeschi” che illustrano molti degli oggetti, ci sono tra gli altri anche Topolino, l’orso Balù, e i Tranformers. Sì, non avete letto male!
Perché la vera storia della mostra è un’altra: tutto è un enorme fake, dal ritrovamento al singolo oggetto, ogni cosa è stata pensata e inventata da quel geniaccio che è Damien Hirst. L’artista di Bristol ha ricreato il sogno di qualsiasi artista: ritrovare a 2000 anni di distanza un tesoro nascosto nel relitto di una nave.
L’idea sottolinea ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, come Hirst conosca a menadito le strategie della comunicazione che guidano adesso il mondo dell’arte. Così come postulato ormai da tempo da due grandi filosofi, Arthur Danto e George Dicky.
La mostra ha letteralmente diviso critica e stampa, innescando dibattiti e aspre critiche. L’unico ad averla accolta in maniera entusiastica è il pubblico, che non è mai mancato anzi è sempre in crescita: anche in questo il buon Damien sembra aver imparato la lezione di Benjamin sull’aura. Il progetto è sicuramente innovativo e di impatto, divertente e pieno di spunti, ma alla lunga un po’ noioso: sembra quasi di essere in una piccola Gardaland, dove il visitatore vaga tra enormi giocattoli che puntano soprattutto a destare meraviglia per la loro mole. L’opulenza e il gigantismo però non sono necessariamente sinonimo di qualità, infatti molte opere sembrano poco curate nei dettagli. Questo fa cadere la base da cui parte la mostra: il falso ritrovamento viene facilmente scoperto. Un’esposizione, quindi, che sicuramente rimarrà nella storia: forse non per la sua vera genesi, quella di parlare della morte e della caducità dell’uomo, ma più per essere una sorta di parco giochi per adulti.
Marco Baldari
9 novembre 2017