A prima vista questo racconto di Kleist del 1806 sembra il soggetto di un melodramma romantico. L’amore tra due giovani contrastato dalle famiglie, un malinteso delle identità, uno scambio di bambini ma soprattutto il carattere straordinario degli avvenimenti e il loro esito straziante sembrano usciti da un libretto d’opera ottocentesco. Ma nelle pieghe della trama emerge via via una visione dell’uomo e del mondo completamente estranea all'orizzonte ideologico di quel tempo e, per diverse ragioni, molto vicina al nostro.
Intanto Kleist sceglie il terremoto a Santiago del 1647, colloca cioè la vicenda in una colonia sudamericana della Spagna, tanto lontana da non essere militarmente coinvolta nella guerra per la riconquista cattolica dell’Europa che dura da trent’anni, ma abbastanza “spagnola” da giustificare le furiose manifestazioni di integralismo che squarciano il racconto e sarebbero incomprensibile in un altro momento storico ma somigliano stranamente a quelle degli integralismi religiosi e ideologici che agitano il Duemila.
Ma a rendere Il terremoto in Cile un racconto che ci riguarda intensamente sono soprattutto le intuizioni sulla complessità della mente umana e le sue contraddizioni: l’ambivalenza del desiderio che scardina e confonde l’ordine sociale e morale (due giovani reietti che trovano all'improvviso affetto e accoglienza), e le dinamiche distruttive della famiglia (tre padri che uccidono o lasciano morire i loro figli). Così, come un nervo teso tra la grande Storia e la dimensione psichica dei personaggi, il racconto è pervaso da un’atmosfera apocalittica collettiva che aspira furiosamente alla salvezza e ci è sempre più familiare: è l’irruzione dell’irrazionale nella società umana, il fanatismo che promuove la morte e l’apparizione improvvisa della solidarietà. L’intera vicenda ha l’andamento incongruente e desiderante di un sogno che diventa incubo, quella sensazione di irrealtà in cui siamo ormai abituati a convivere.
Da queste riflessioni è nata l’idea di comporre lo spettacolo attraverso un intreccio ininterrotto di piani: una voce narrante, che filtra con i gesti e le parole il testo di Kleist, e una voce del canto e delle azioni performative musicali per creare così un’ambientazione sonora che realizzi il carattere duplice dei personaggi e renda concreti i livelli più eterei, dall’onirico all’irrazionale, traducendoli in scena con atmosfere elettroacustiche fatte di bisbigli, ritmi e suoni minimalisti e ipnotici: e figurare così il persistente attraversamento del confine tra realtà e sogno.
redazione
28 agosto 2018
informazioni
Ideazione e regia: Michele Suozzo
Musiche originali e canzoni composte ed eseguite dal vivo da:
Fabio Lorenzi (direzione, chitarre e viola da gamba)
Areta Gambaro (performance, canto e flauti dolci)
Emanuele Bertolini (live electronic, basso elettrico)
su testi di Areta Gambaro