Una sorta di Madonna dei bassifondi, turpiloquiante e bestemmiatrice, la Maria Croce, protagonista di Stabat Mater, ragazza madre, ex-prostituta, ma neanche troppo ex, ora stralunata straccivendola cui l’autore impone, similmente agli altri personaggi dei suoi Quattro atti profani, un’irrefrenabile e farneticante logorrea, un’incontinenza verbale comicamente oscena, fatta di martellanti interiezioni e ripetizioni, tipiche di chi vuole riaffermarsi ri-dicendo e non riesce più a parlare se non stra-parlando. E' proprio il linguaggio o, meglio, questa sua singolare rottamazione, una delle ossessioni e cifre stilistiche di Antonio Tarantino (che è poi stata la fascinazione primaria nel voler mettere in scena questo testo).
È il linguaggio di quella marginalità suburbana, dannata, condannata e dimenticata dalla Storia.
È la lingua degli ultimi, dei reietti, degli emarginati, degli scarti e detriti della cosiddetta modernità, che non possiedono neanche più una lingua propria (dunque una propria identità) e approdano a una strana, musicalissima e teatralissima pastura linguistica, dove si mescolano il proprio dialetto d’origine (Maria Croce è un’immigrata da un Sud Italia non ben identificato) col dialetto, gli intercalari e le abitudini gergali di una Torino periferica e degradata che Tarantino sa “dipingere” (pittore, prima di diventare drammaturgo) con grande maestria.
Una lingua d’accatto, dunque, presa in prestito e fatta propria, come nel caso della nostra protagonista, piena di irresistibili storpiature, strafalcioni, ictus verbali e infettata da slogan pubblicitari e televisivi. Una lingua che tragicamente non è più quella d’origine e non è neanche più quella dove si sta tentando di vivere la propria miserabile esistenza.
La parola in Tarantino, soprattutto in Stabat Mater, si fa fisica, estremamente corporea, cruda, viscerale, primordiale, rottamata, sporca e oscena, teatrale e antiteatrale al tempo stesso, e l’organo fonatorio della protagonista diventa ulteriore orifizio per deiettare rabbiosamente (la rabbia e il rancore sono i generatori della comica e disperata vitalità di Maria) il suo turpiloquio verso un ambiente ostile e avverso, dominato dall’ossessione per il sesso, soprattutto quello maschile, e la promiscua fornicazione, vista o immaginata in ogni angolo di strada, in una sorta di città-bordello dove l’altro e gli altri sono tutti pericolosamente o cuppi o puttane; oltre all’approdo razzista nell’inevitabile guerra tra disperati che vede Maria proferire invettive scurrili contro i marocchini e il loro membro fuori misura. Il marocchino diventa dunque il nemico da combattere e da cacciare - pretesto e simulacro di altre ben più profonde ferite e rancori - da una presunta civiltà di cui si illude di far parte, ma dalla quale è continuamente respinta.
Un accidentato e originale percorso linguistico nel quale il comico fa programmatica-mente da apripista all’orrore dell’esistere. Attraverso questo linguaggio Tarantino riscrive e reimmerge nel quotidiano più degradato, sulle rive del Po o della Dora, brandelli di Sacre Scritture, sghembe e laiche Passioni cristiche, surreali Golgota e stralunati Calvari. È già chiaro dal nome della protagonista che Maria Croce è anche la Mater Dei.
A questa rottamazione della parola corrisponde quasi sempre in Tarantino una rottamazione del corpo e della figura. Fuma e beve la nostra Maria (“rossoantico, aperòl, cinar, cinzanini, chinemartini”) che costringe i suoi chili di troppo in sgargianti abiti, secondo lei i migliori del suo trovarobato di stracci, in pantaloni “sancrati, svasati, attillati”, vagheggiando improbabili diete a base di “tagliatelle burro e cacio, due uova frittellate, un Tavernello e via col fumo…” che dovrebbero riportarla a chissà quali antichi splendori, per far morire di invidia “ste mignotte”… “perché io sono ancora un bel figone”. Ma la nostra Maria Croce gioca anche, in questa rottamazione corporea, accentuandola, quando dà voce e corpo alle figure che popolano il suo quotidiano e affollano la sua mente.
L’habitat scenico voluto per questo delirante oratorio per voce sola, come recita il sottotitolo del testo, è più simbolico che descrittivo; alla descrizione si è preferita l’evocazione.
Un luogo-non luogo sospeso e rarefatto, una scatola scenica delimitata da fondali nebbia che, attraverso un gioco di luci, favorisce un’atmosfera, appunto, sospesa, opalescente e lattiginosa, oserei dire celeste in senso laico o, ancora meglio, tra cielo e terra. Una pedana circolare e in declivio, con al centro uno spazio altrettanto circolare. Un oggetto vagamente circense, un po’ come quelli dove le bestie da circo sono costrette ad esibirsi nei loro patetici numeri, carico di sensi e valenze mistico-simboliche, ma anche di materica concretezza (giostra della vita, aureola dell’Unto, orifizio, passerella da avanspettacolo, “sinagoga del demonio”, lugubre “tavolaccio” mortuario nel finale) e di sacralità, mai presa troppo sul serio; anche negli interventi musicali, tutti in controtendenza rispetto ad una consueta idea del sacro in musica.
La regia di questo Stabat Mater si spinge a ridisegnare criticamente una contemporanea commedia all’italiana, dove riemergono senza mai imitarli, i volti di alcune grandi interpreti femminili che hanno lasciato un segno indelebile nel nostro immaginario collettivo e che hanno reso grande quella fortunata stagione del nostro cinema.
Il teatro di Tarantino necessita di attori fuoriclasse, impegnati come sono a rendere carne e sangue e tradurre in ricercata concretezza e semplicità una scrittura così impervia e funambolica, volutamente priva di punteggiatura e didascalie. Quegli attori speciali che ti fanno ridere mentre stai piangendo, e viceversa. Interprete d’eccezione di questa edizione di Stabat Mater è Maria Paiato.
Il nostro percorso di registi, di registi che amano gli attori, preciso, cosa tutt’altro che scontata, ci regala a volte questi doni-incontri che hanno, senza che lo si voglia e quasi senza accorgersene, il potere di favorire un ripensamento profondo del proprio mestiere, dove a un pronto e funzionale apparato di indicazioni che accendano e facciano funzionare l’interprete, va unito l’amorevole e paziente lavoro di attesa attiva a che il Miracolo del Teatro (visto che parliamo di una laica riscrittura della Madonna) accada.
“C’è una spinta emotiva che mi porta ad urtare le parole, a scansarle dalla loro sede portandole ad uscire: è un sentimento di compassione, di amore, di pietà per la condizione dell’uomo.
L’uomo si fraintende in modo così clamoroso. È una sorta di solidarietà attraverso la quale vorrei salvare parte della mia vita, parte delle mie esperienze, e salvare la vita di questi personaggi, non consegnarli all’oscurità, all’oblio, direi un sentimento fraterno, tutto sommato.
Non sono una persona che riesce ad odiare, ne ho passate talmente tante che mi sembra una perdita di tempo, uno spreco. Anche se mi rendo conto che l’odio in scrittura può essere molto produttivo. E poi sento una forte simpatia per le persone che non ce la fanno, la sconfitta mi rattrista ma allo stesso tempo mi avvicina a queste persone. A me la logica dei vincenti non mi interessa tanto, è una visione sportiva, una visione hobbesiana della vita, quando Hobbes usa quella metafora della vita come corsa… l’uomo è capace di qualsiasi nefandezza e di qualsiasi crudeltà. È proprio questo che genera una pena in me, forse è una nostalgia per un paradiso perduto”. (da “Conversazione con Antonio Tarantino” di Tiziano Fratus).
Redazione
16 febbraio 2018
Informazioni
Stabat Mater
Oratorio per voce sola
di Antonio Tarantino
Con Maria Paiato
Scene Alessandro Chiti
Costumi Helga Williams
Musiche originali Paolo Coletta
Disegno luci Javier Delle Monache
Regia Giuseppe Marini
Produzione SOCIETÀ PER ATTORI
Durata: 1 h e 30 senza intervallo
Orario spettacoli: da martedì a sabato ore 20.00
domenica ore 17.00