Recensione di ‘La Porta divisoria’ ed ‘Il Castello del duca Barbablù’, in scena al Teatro Verdi di Trieste dal 14 al 23 giugno 2024
Il teatro Verdi di Trieste chiude la stagione con un dittico di grande spessore: ‘La porta divisoria’ di Carpi ed ‘Il Castello del duca Barbablù’ di Bartok.
Proposta raffinatissima, sicuramente eterogenea nelle caratteristiche e nelle conclusioni, ma certamente una scelta che rende onore alla direzione del teatro che, pur conoscendo la poco propensione del pubblico tergestino per la musica contemporanea, ha scelto di proporre questi due atti unici a conclusione di un cartellone ricco di stimoli e non scontato, offrendo all’ascolto un lavoro praticamente sconosciuto ma intriso di elementi triestini ed una partitura che mancava nella programmazione da quarantacinque anni .
‘La porta divisoria’ viene proposta nell’allestimento della prima assoluta, andata in scena a Spoleto nel 2022.
Questo titolo è l’unica opera lirica composta da Fiorenzo Carpi, che andò a musicare il solo libretto scritto da Strehler per questo genere musicale, ispirato a ‘Le Metamorfosi’ di Kafka.
A cementare il rapporto con la triestinità, se non con la città, il titolo venne commissionato da Victor de Sabata, che voleva inserirlo nella stagione della Scala.
Programmato per due volte, venne sempre cancellato ed anche il tentativo compiuto da Chailly negli anni Settanta di farlo completare non portò a risultati migliori.
Di fatto Carpi non ultimò mai la partitura, portata a termine a partire dai suoi appunti da Alessandro Salbiati qualche anno fa.
Siamo davanti ad un lavoro ricco di dissonanze, con una orchestrazione raffinata, una costruzione intellettuale molto forte, un gioco inedito di equilibri ed una sperimentazione importante sulle voci.
Che non vuol dire che ‘La porta divisoria’ sia un lavoro del tutto riuscito e probabilmente la consapevolezza di non aver completamente centrato l’obiettivo potrebbe essere il motivo per cui Carpi non licenziò mai la stesura definitiva.
La revisione finale dell’autore, con la sedimentazione con i riascolti dei vari effetti, il riequilibrio delle varie componenti, la valutazione della reazione del pubblico da parte del compositore, sono elementi importanti, che in questo caso sono obbligatoriamente mancati e si sente.
Come si sentono le influenze brechtiane nel libretto di Strehler, che racconta in modo volutamente spiccio, senza regalare passaggi letterari memorabili.
Ma che forse proprio per questo è un tassello importante per capire la variegata figura di questo straordinario uomo di teatro.
Visivamente l’allestimento era molto raffinato, grazie alla struttura fissa di Andrea Stanici, sostanzialmente una parete semitrasparente con una elegante porta, i piacevoli costumi di Clelia De Angelis e le importanti luci di Eva Bruno.
Nelle soluzioni scenografiche è un rincorrersi di citazioni, dal ‘Giardino dei Ciliegi’ del Piccolo ai dipinti di Caravaggio, da Magritte a Pirandello, sicuramente tutto molto colto, spesso metateatrale, visivamente efficace ma, al di là della bellezza visiva, drammaturgicamente discutibile, anche a causa di alcune scelte registiche.
Il rischio è questa operazione rimanga una erudita azione intellettuale, che non varchi, nonostante la bravura di tutte le sue componenti, la soglia del documentarismo.
Anche il fatto che il velo costringa all’amplificazione di molte delle voci, creando una differenza, verrebbe da dire una gerarchia fra chi, come Gregorio, canta dalla sala e chi è sulla scena, non è elemento di poco peso.
Ma non solo: di fatto il protagonista è visivamente assente.
Immaginato, evocato, raccontato, descritto, ma mai visibile.
Si sente la voce e se ne vede la sagoma in un palco, ma lui non è mai sul palcoscenico.
Una metamorfosi senza metamorfosi.
Un uomo che non cambia perché non esiste. Assente da vivo ed assente da morto. Una scelta di Giorgio Bongiovanni che dimostra grande personalità ed una visione personale forte , che proprio per questo, nonostante non la condividiamo ne’ teatralmente né dal punto di vista letterario, va apprezzata per la sua coerenza, che è dote di non poco valore.
La direzione di Marco Angius, per entrambi gli spettacoli, è sicura ed appropriata. L’orchestra della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi segue bene le indicazioni di questo Maestro, profondo conoscitore della musica contemporanea, capace di distillare le dissonanze, esaltare i suoni più aspri, giocare con una ritmica ardita ma anche, soprattutto in ‘Il Castello del duca Barbablù’, di momenti di intenso trasporto lirico.
Non semplice commentare le voci, che certamente affrontano parti complesse da cantare, nelle quali spesso i suoni sono forzati, c’è una difficile alternanza fra parlato e cantato, si punta alle disomogeneità. Impossibile capire se certi vibrati siano difetti o ricerca stilistica, se alcuni suoni che sembrano poco sostenuti, in particolare in Gregorio, siano cedimenti tecnici o richieste musicali.
Certamente una composizione ostica, che tutti gli interpreti assolvono con determinazione.
Davide Peroni veste con credibilità la doppia parte del gerente e del secondo pensionante. Interessante l’uso dello strumento vocale della prima domestica, Claudia Floris, mentre la seconda domestica costringe Federica Tuccillo, anche seconda voce di Gregorio, ad una escursione vocale complessa, eseguita correttamente.
Oronzo D’Uso è un riuscito primo pensionante e la terza voce di Gregorio.
Il nucleo centrale della vicenda è la famiglia Samsa: la madre, con la voce profonda e la figura elegante di Simone van Seumeren; il padre, al cui canto è chiesto di descrivere un uomo cinico e strisciante, interpretato da Alfonso Michele Ciulla ed i due figli.
La ragazza è Antonia Salzano, giovane cantante che si sta specializzando nei ruoli contemporanei , mentre Gregorio è Davide Romeo, chiamato a confrontarsi con un canto declamato, ricco di escursioni vocali ardite, con canoni espressivi differenti. Certamente il suo è un racconto più teso che drammatico, in ossequio all’intera chiave narrativa.
Alla fine applausi cordiali per tutti gli interpreti da parte dello scarso pubblico che dopo l’intervallo si è trovato davanti ad uno degli spettacoli più intensi visti negli ultimi anni a Trieste.
La scelta di chiamare un trio di fuoriclasse come Henning Brockhaus, per regia e scene, Giancarlo Colis, per scene e costumi e la coreografa Valentina Escobar è stata sicuramente la mossa vincente.
I tre artisti, in perfetta simbiosi , hanno ideato uno spettacolo coinvolgente, intenso, fecondo di significati ed inebriato di simbolismi, che scorre parallelo, visivamente, al racconto musicale.
Un gruppo di bravissimi ballerini e mimi è presenza costante in scena e dà forma, più che alla storia, alle sensazioni che vi vengono richiamate, con immagini di struggente poesia.
All’inizio sono sagome grigie sullo sfondo, che pian piano vestono i colori della vicenda, muovendosi con misura, garbo, ma anche potenza e vigore.
Un po’ topi, un po’ fantasmi, man mano che la trama prende forma diventano proiezioni di Idee Platoniche, sostituendo alla solitudine dei protagonisti un articolato viaggio nel mondo interiore.
Niente è mai scontato. Gli strumenti di tortura abbagliano luminosi , con una citazione attenta al consumismo che condanna a commercializzare le emozioni.
Quando Judith apre la porta del pianto, appaiono delle figure con un occhio al posto del volto, quasi una citazione da Dalì e versano in una ciotola una sorta di polvere di lacrime.
Come se le lacrime dell’intera umanità fossero state mummificate dal tempo, senza trovare mai il conforto del sollievo. Una creazione poetica fortissima, di una potenza deflagrante, che la mimica sapiente dei coreuti riesce a rendere ancora più magnetica.
Il sangue che scorre sulle pareti prende la forma di leggeri teli, con i quali i danzatori si ammantano, come se si facessero abbracciare dalle loro paure.
All’aprirsi della porta che svela la violenza, ecco prendere forma l’eco lontana di Kurosawa, a ricordare l’universalità della crudeltà.
I gioielli si fanno fiori giganteschi di ‘un giardino nascosto sotto le dure rocce’, quasi fossimo in ‘Parsifal’, con un gioco di proporzioni che fa ritornare fanciulli, a donarci la consapevolezza del gioiello dell’infanzia.
La paura prende la forma di grandi maschere, omaggio al tempo stesso al primitivismo ed a Munch, peraltro entrambi coevi a Bartok.
Così si procede di citazione in citazione, in narrazioni coinvolgenti, fino all’apparizione finale delle altre mogli, vive ma condannate all’eternità.
Quasi a dimostrare che Barbablù non può vivere un sentimento concreto. Non perché uomo arido e violento, ma, all’opposto, talmente conscio del valore dell’Amore, da non riuscire a dargli una forma terrena.
L’assoluto come privazione del vissuto, la metafisica come una sentenza.
Non a caso le porte non sono costruite ma proiettate sulla struttura architettonica possente: un po’ paure, un po’ rimorsi, che appaiono improvvisi sulla strada di una donna troppo sicura di sé o , forse, terribilmente fragile.
Una messa in scena che è una delle pagine più alte del teatro dell’opera visto a Trieste, ma non solo, in questi anni, che conta anche sull’apporto grandi interpreti: Isabel De Paoli ed Andrea Silvestrelli, con il contributo del bravo Maurizio Zacchigna, che recita i versi iniziali, gli unici in italiano, che introducono all’atmosfera onirica e magnetica del racconto di Béla Balázs.
Judit si muove sensuale, vestita di rosso, con giarrettiere nere che fanno capolino, in un dialogo continuo con il duca o con i ballerini.
Vocalmente solidissima, sia nella zona bassa, nella quale mette in evidenza toni ambrati di grande rilevanza, che in quella alta, nella quale si muove con grande sicurezza, lancia acuti come lame, frasi lunghissime sostenute con fiati possenti e tecnica sicura, rifugge da ogni eccesso, da facili drammatizzazioni,, riesce ad essere coinvolgente anche facendo un passo indietro, verrebbe da dire guardandosi vivere.
Un po’Giuditta, un po’ Euridice, ci conduce in un viaggio verso l’Infinito, inteso come prigione, come la condanna della perfezione, immobile ed immutabile.
Eternamente viva perchè di fatto morta.
Silvestrelli ha voce potente. In alcuni momenti sembra un basso profondo del repertorio russo, con un suono colorato di magma e fumi, graffiato dai dolori della vita, che trasuda del rimpianto di sapere già quale strada sarà costretto a percorrere. Possente, virile, sontuoso, ma anche fragile e sensibile, il suo Barbablù è umanissimo e quando la partitura sale verso le note più acute, i suoni si colorano di strazio, di lacerazione, senza perdere né lo smalto, né la bellezza. Ci sono frasi musicali lunghissime, che il baritono sostiene con fiati mirabili, disegnando suoni sontuosi che incatenano il pubblico.
Uno spettacolo memorabile che tocca uno dei punti più alti delle ultime stagioni del teatro triestino e che è stato festeggiato da numerose chiamate in scena per tutti gli acclamati interpreti.
Trieste, teatro Verdi, 16 giugno 2024
Gianluca Macovez
17 giugno 2024
informazioni
LA PORTA DIVISORIA di Fiorenzo Carpi completamento di Alessandro Solbiati
Libretto di Giorgio Strehler da La Metamorfosi di Franz Kafka
Maestro Concertatore e Direttore MARCO ANGIUS
Regia GIORGIO BONGIOVANNI
Scene ANDREA STANISCI
Costumi CLELIA DE ANGELIS
Luci EVA BRUNO
Allestimento del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto “A. Belli”
Personaggi e interpreti
Gregorio DAVIDE ROMEO
Padre di Gregorio ALFONSO MICHELE CIULLA
Madre di Gregorio SIMONE VAN SEUMEREN
Sorella di Gregorio ANTONIA SALZANO
Il gerente/Secondo pensionante DAVIDE PERONI
Primo pensionante/Terza voce di Gregorio ORONZO D’URSO
Seconda domestica/Seconda voce di Gregorio FEDERICA TUCCILLO
Terzo pensionante GIORDANO FARINA
Prima domestica CLAUDIA FLORIS
IL CASTELLO DEL DUCA BARBABLU’ di Béla Bartók
Opera in un atto su libretto di Béla Balázs
Maestro Concertatore e Direttore MARCO ANGIUS
Regia e luci HENNING BROCKHAUS
Scene HENNING BROCKHAUS/GIANCARLO COLIS
Costumi GIANCARLO COLIS
Coreografie VALENTINA ESCOBAR
Nuovo Allestimento della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Personaggi e interpreti principali
Il duca Barbablù ANDREA SILVESTRELLI
Judith, sua moglie ISABEL DE PAOLI
Un bardo MAURIZIO ZACCHIGNA
Orchestra e Tecnici della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste