Recensione dello spettacolo: Gabriele Lavia, Le favole di Oscar Wilde. In scena al Teatro Vascello dal 7 al 9 maggio 2021
La disinvoltura è di chi attraversa la scena quasi per caso prendendo forma da un suggestivo chiaroscuro che riposa sui contorni di una sedia e di un leggìo posti al centro del palco. Il prologo riflette l’entusiasmo e l’esasperazione di colui al quale la lontananza dal teatro non è bastata ad indebolirlo ma caricato, ogni giorno di più, di rabbia sbocciata poi in energia. E quando si spengono le luci e sono i volti degli spettatori ora ad essere indefiniti, ci si accorge della presenza di questi come metafora del proprio esserci, perché non c’è esistenza senza assenza. “Il Teatro è un luogo di cui non si può fare a meno”: così Gabriele Lavia si “ripresenta” ad un pubblico ancora incredulo di ritrovarsi lì e quasi impacciato nel riprendere certi automatismi, di quando andare a teatro era consuetudine.
Ci sono poi dei libri che dentro uno scaffale proprio non ci vogliono stare: Le Favole di Oscar Wilde rientrano tra questi testi un po’ disobbedienti e poco allineati che reclamano di esser letti. Il nucleo di tali racconti si potrà apprezzare e cogliere solo quando quegli stessi bambini, a cui tali letture sono destinate, saranno adulti e avranno esperito le diverse policromie dell’umana essenza intrecciate con le scelte, a volte spietate, del Destino. Nel testo di Wilde non c’è posto per quel rivolo di giustizia finale a cui siamo spesso abituati e che sempre attendiamo con quell’ impazienza tanto forte quanto il patimento subito dal protagonista della vicenda. Nulla di tutto questo, niente che riscatti dall’ingiustizia subita ma, come lo stesso Lavia ammette quasi mortificato, sono storie che finiscono male in cui mai nessuno visse felice e contento. Convivono all’interno della stessa trama esempi di segno opposto come la malvagità, il pentimento, l’ irriconoscenza, la generosità, l’attaccamento e la sofferenza, non risolti da un lieto fine e dove anche il mondo animale e fantastico è protagonista.
“ Il figlio delle stelle” e “Il principe felice” sono le due favole che Lavia selezionerà assecondando uno stile espositivo solo apparentemente simile al reading. Quella del maestro sarà di fatto una vera e propria interpretazione in cui la forza espressiva sorvola la mera azione di lettura del testo, diluita questa da un potente solvente recitativo. Il timbro di Lavia si tinge di diversi registri espressivi, non accontentandosi di interpretare solo la voce dei personaggi ma intercettandone anche l’anima. Alle impennate vocali, rimarcanti stupore e sdegno, rispondono silenzi e tonalità sommesse, quasi sussurrate, come se l’attore si rivolgesse ad ognuno di noi separatamente per svelarci con una certa urgenza, una confidenza su un fatto avvenuto in quell’istante, annullando così la distanza tra ciò che avvenne e ciò che è appena avvenuto. La mimica facciale e la corporeità di Lavia a volte sottolineano la densità delle parole, altre volte sembrano anticiparle preparando l’ascoltatore a sintonizzarsi emotivamente su quanto sarebbe seguito.
Efficace quindi la formula scelta per tale rappresentazione la cui immediatezza comunicativa ed emotiva è stata esaltata dalla semplicità quasi austera della scena, come a non voler creare troppe frapposizioni tra l’attore e il pubblico uniti, come non mai, dallo stesso destino e dalla stesso bisogno di tornare in Teatro. Rispettoso delle norme vigenti inerenti il distanziamento, il pubblico, decisamente numeroso, ha tributato grande apprezzamento per l’eleganza e lo spessore della pièce premiando di fatto nel migliore dei modi anche il proprio “debutto”.
Simone Marcari
10 maggio 2021