Recensione dello spettacolo Diamoci del tu, di Norm Foster. Con Pietro Longhi e Gaia De Laurentiis. Regia di Enrico Maria Lamanna. In scena al Teatro Roma dal 20 ottobre al 1 novembre 2020
Succede che la solitudine diviene scelta ed abitudine e a volte rimane la sola a fare compagnia. Ma anche nella più estrema indifferenza verso il mondo, implacabile ed inaspettato sarà “quel” momento che come una voce interiore griderà il bisogno di contatto, tanto vibrante e tormentato quanto piatta e asettica la nostra noncuranza fino ad allora. Ciò che era abitudine e tranquillità diviene paura ed urgenza. Nelle emergenze, infatti, non si cerca mai una persona bensì la persona: quella a cui affidare per la prima volta le nostre emozioni e custodire le sue.
Il signor David (Pietro Longhi) ricco settantenne romanziere con alle spalle il fallimento di tre matrimoni ed un carattere arruginito dal vento salato della vita è costretto, suo malgrado, a relazionarsi con la signorina Lucy Obstad (Gaia De Laurentiis), sua governante. Il loro linguaggio, ironico e pungente, ci racconta una malcelata sopportazione reciproca quale risultante di indifferenza, noncuranza e troppi non detti mai esplicitati. La parola, estremamente formale da parte della donna, è utilizzata per distanziare e rimarcare l’incompatibilità dei ruoli. I troppi anni trascorsi “insieme” ben ventotto, non hanno favorito la conoscenza reciproca bensì la cristallizzazione di un rapporto squisitamente formale e lavorativo. A volte però, dietro abitudini e automatismi nascondiamo i nostri bisogni: chissà, forse per paura di rischiare il contatto o forse perchè abbiamo perso la dimestichezza alla relazione.
Sarà stata forse l’elettricità dei tuoni di quella sera o l’improvvisa consapevolezza di un tempo che sta per finire, ma in quel fine giornata il signor David non ha proprio voluto che, terminato l’orario lavorativo, la sua governante tornasse a casa propria. Ad essere in rilievo è il bisogno di raggiungere l’altro per recuperare in fretta quel che resta del tempo perduto. Il linguaggio del protagonista cambia, perchè sono cambiate le intenzioni: la parola non è più barriera ma un “andare verso”, divenendo più accogliente e veloce. La priorità del nostro scrittore, infatti, è conoscere per la prima volta tutto ciò che per ventotto anni non ha mai saputo sulla sua governante, come il nome di battesimo e il suo stato civile. Quest’ultima si difende mantenendo lo stile espressivo austero di sempre, riflesso di quell’inerzia radicata nel ruolo. Ma quando l’insistenza del sign. David non è più arginabile, anche la donna si concede il permesso, per la prima volta, di farsi raggiungere perchè, in fondo, ognuno di noi ha bisogno di abbracciare e di essere abbracciato.
L’eloquio subisce una seconda evoluzione e da asettico e distaccato diviene verbo informale ed intimo. Tale naturalezza espressiva, ai limiti dell’irriverenza, è rintracciabile prevalentemente nella governante, a testimonianza di come dietro una certa scorsa protettiva ci fosse il medesimo bisogno di intimità. E quando il reciproco affidarsi viene sentito come la loro dimensione reale, in una dinamica ripetuta di confessioni e segreti rivelati, facile sarà lasciarsi travolgere dall’ebrezza della nuova esperienza fino perdere il controllo e confessare l’indicibile.
Densa e profonda la vibrante scrittura del drammaturgo canadese Norm Foster.Egli racconta e indaga le sfumature della bellissima imperfezione dell’animo umano in una crescente dinamica di figura e sfondo dove crollano le difese ed emerge il bisogno di incontro tra due disperate e inconsapevoli solitudini. L’utilizzo di diversi registri dialettici informa sulla qualità della relazione tra i due protagonisti e del progressivo avvicinamento, attraversando un linguaggio che, da formale e distanziante, sfocia in parole che cercano l’altro da sè. Alla parola utilizzata come indicatore di intimità risponde l’elegante tocco registico di Enrico Maria Lamanna che affianca e rinforza il verbo con la corporeità: la prossimità dei corpi dei due protagonisti asseconda quella della parola. Entrambi i personaggi si sentono accolti vicendevolmente quando imparano a chiamarsi per nome e darsi del tu emergendo così dallo sciatto anonimato: solo in quel momento il dialogo diviene più vero e intimo e ci si può permettere di sedersi accanto. Non completamente convincente, invece, la scelta drammaturgica di creare un finale a sorpresa, apparso prevedibile e leggermente dissonante, per un testo che per qualità ed equilibrio non avrebbe necessitato di denaturarsi nel colpo di scena. Apprezzabile l’intervento registico nel sottolineare, con suggestivi inserti sinfonici di archi (composti da Antonio Di Pofi) e cambi di gradazione luminosa, l’intimità dei passaggi narrativi e relazionali. Questi sono ulteriormente valorizzati dall’alternanza, sul lato sinistro del palcoscenico, di immagini simboliche inerenti il trascorso drammatico dei rispettivi protagonisti mentre essi si raccontano. Suggestivo e ben rifinito l’allestimento scenografico a cura di Luigia Battani, raffigurante l’elegante salotto d’epoca dello scrittore: tale scenografia, oltre ad offire ambientazione, sostiene anche il dialogo divenendo dimora e custode della parola. Il progetto luci (Marco Macrini),colorando lo spazio scenografico e riverberando in questo, ha saputo enfatizzare la parte emozionale del nucleo narrativo. Decisamente di livello l’interpretazione di Pietro Longhi e Gaia De Laurentiis nel dare vita a due personaggi attorcigliati attorno a se stessi per difendersi dalla vita, dimostrandosi a loro agio anche nei rivolti comici della partitura scritta. Imprimendo una ritmica costante alla recitazione e modulando la loro espressività assecondando il momento relazionale, i due attori hanno restituito tridimensionalità ai due protagonisti facendo efficacemente emergere la loro fragilità sottostante alla ruvida maschera.
Pièce decisamente convincente e di pregiata fattura che ha trovato rispondenza nella totale approvazione di quel pubblico che ha capito che il teatro è il posto più sicuro per proteggere il corpo e alimentare l’anima.Toccante a fine spettacolo l’appello di Pietro Longhi ( in qualità stavolta di direttore artistico del Teatro Roma). Sostenuto da Gaia De Laurentiis, Longhi rivolgendosi al pubblico ha chiesto pazienza per i disagi della programmazione della stagione, evidenziando le enormi difficoltà nel tenere eroicamente aperto un Teatro nonostante un futuro prossimo privo di prospettive.
Simone Marcari
22 ottobre 2020
Informazioni
Diamoci del tu
Drammaturgia di Norm Foster
Con:
Pietro Longhi
Gaia De Laurentis
Regia di Enrico Maria Lamanna
Aiuto Regia: Augusto Casella
Scenografia: Luigia Battani
Disegno luci: Marco Macrini
Tecnico luci: Carlo Di Fabio
Costumi: Lucia Mariani
Musiche Originali: Antonio Di Pofi
Produzione Centro Teatrale Artigiano di Roma diretto da Pietro Longhi