Recensione dello spettacolo "Riccardo III", in scena al Globe Theatre dal 30 Agosto al 15 Settembre 2019
Maurizio Donadoni entra in scena ingabbiato. Recita misurato, cupo, sotterraneo il monologo iniziale «Ormai l'inverno del nostro scontento s'è fatto estate sfolgorante ai raggi di questo sole di York». Poi si libera dai ceppi e, con il suo Riccardo, può impadronirsi del palcoscenico: da allora in poi scorreranno fiumi di sangue.
La Guerra delle Due Rose è appena terminata e un’epoca di pace sta per aprirsi in Inghilterra. Ma la felicità è intollerabile per Riccardo III, chè la natura stessa sembra abbia voluto negargliela: gobbo, deforme, claudicante, ma soprattutto arido nell’animo e ineluttabilmente incline al male.
«Riccardo III», catalogato come un dramma storico, è in effetti un ritratto psicopatologico. Il tragico percorso di un uomo che, offeso dalla Natura (in realtà la deformità è un’invenzione shakespeariana, che rende visibile al pubblico la malattia dell’animo), cerca a qualunque costo la sua personale rivincita, che si concretizzerà con il sommo obiettivo di diventare re. Un tragico cammino che inizia con il desiderio di piacersi, manifestato dalla paradossale intenzione di acquistare uno specchio e prosegue con la continua ricerca del riconoscimento dell’altro, addirittura il pubblico, cui vengono anticipati gli intenti criminosi. Riccardo non vuole essere diverso, ma affermarsi per quello che è. Tanto più sembra punito dal destino, tanto più ardue sono le sfide cui si sottopone e che vuol vincere, tanto più raccapriccianti sono i suoi delitti. Il suo agire è un continuo valicare ogni regola morale, come se anche esse dovessero sottomettersi alla sua sfrenata ambizione. Cosa può ferire di più la sensibilità che corteggiare la donna di cui si è ucciso il marito, davanti al di lui cadavere? Cosa c’è di più orribile che far massacrare due candidi giovanetti? Riccardo agisce circuendo l’altro, conquistandone metodicamente la fiducia con le sue ipnotiche doti di affabulatore; ma, soprattutto, senza provare alcun sentimento: «Io non sento niente», ripete continuamente.
Percezione grandiosa del sé, desiderio di ammirazione, ambizione di successo illimitato cui tutto si sottopone, disprezzo ed utilizzo manipolatorio del prossimo, mancanza di empatia: in Riccardo si riconoscono tutti i sintomi della patologia che, con un termine purtroppo abusato, oggi viene definita narcisismo patologico e su cui, nel XVI secolo Shakespeare costruisce, con precisione scientifica, un personaggio monumentale.
Malattia dell’animo la cui diagnosi è però infausta. Chi ha creato un mondo in cui giganteggia null’altro che il proprio Sé si ritrova «Solo nel mondo che mi odia e che io odio»; chi è stato annullato nel corpo, invece, rimane una presenza incancellabile, uno spirito che nella notte cruciale pronuncerà il suo inappellabile verdetto: «Dispera e muori!».
Per riprodurre la potente scultura shakespeariana, Marco Carniti compie una precisa scelta di regia già nella scelta del protagonista. Maurizio Donadoni è un attore poderoso nel fisico e irruente in una recitazione, che pare non seguire alcun dettato se non quello di un estro irrefrenabile. Un cavallo indomabile che, stavolta zoppicando, percorre in lungo e largo il palcoscenico (e il parterre), un mattatore che domina la scena, che irretisce, che affabula. Così come il suo personaggio, Donadoni fagocita tutto: i compagni di scena, contenuti dalla necessaria misura dell’impostazione, e lo stesso testo shakespeariano, cui sottrae il naturale andamento musicale e la fiorita aulicità, aiutato da una traduzione che, nelle sue battute, è più colloquiale. Riccardo III non poteva essere che lui.
Ne consegue che i compagni di scena sono chiamati a sacrificare ogni ambizione di protagonismo. L’effetto è però spiacevolmente stridente quando il dislivello con il protagonista diventa più evidente. Il regista prova comunque a riproporre il contrappunto, che aveva caratterizzato in modo indelebile il suo precedente «Otello», fra la strabordanza di Donadoni e l’asciutta, mirabile compostezza di Gianluigi Fogacci; ma questa risorsa è concessa solo nella seconda parte del dramma, quando il personaggio di Lord Buckingham assume rilievo nel testo.
Per contro, come Shakespeare ha riservato, costante della sua opera, maggiore dignità morale ai personaggi femminili in un mondo dove la tragedia è generata esclusivamente dalla follia degli uomini, così Marco Carniti, nel suo allestimento, incornicia il ruolo delle sue protagoniste, chiedendo ed ottenendo che sia conferita forza alla personalità positiva da contrapporre alla assoluta negatività di Riccardo.
Federica Bern e Antonella Civale quindi soffiano con il talento nei rispettivi personaggi donando alle loro caratteristiche precipue, la dolente dolcezza di Anna e l’autorevole dignità di Elisabetta, un volume che si staglia luminoso contro la brutale figura del protagonista. Di suo Paila Pavese, la Duchessa di York, regala l’espressività e l’intensità che solo un mestiere consumato può offrire, nel tratteggiare il dolore di una madre, che patisce la colpa di aver partorito tale mostruosità.
Melania Giglio, perfettamente a suo agio, forse per una naturale predisposizione, nei panni di personaggi vigorosi, si cala nel ruolo di Margherita, la vecchia regina spodestata, con le armi usuali della trasformazione fisica e dell’estremizzazione caratteriale. Come nel testo Margherita, raffigurazione materiale del Destino, si contrappone a Riccardo, di cui svela il lato oscuro dell’animo, così in scena la Giglio diventa l’alter ego del protagonista maschile: irrefrenabile, incontenibile, virtuosa oltre il limite nell’utilizzo estremo della voce e del corpo, strappa applausi a scena aperta con il monologo delle invettive.
Il lavoro di regia di Marco Carniti non si basa comunque sulla gestione delle interpretazioni, ma dà valore a tutti gli aspetti tecnici. Come in «Otello», la scenografia di ferro e legno è chiamata, con la sua simbologia, a raccontare. Una passerella rossa attraversa il palcoscenico e, sbalzando da esso, come un trampolino conduce al vuoto dove i personaggi rischiano continuamente di cadere; al suo opposto estremo una porta scorrevole si chiude inesorabilmente come una ghigliottina. Molto curata è, in particolare, la costruzione delle scene: da quelle d’armi, ai movimenti di scena, che coinvolgono anche il parterre, alla rappresentazione dei continui ammazzamenti, che senza ricorrere al truculento (unica concessione allo splatter una sanguinante testa mozzata), è comunque spaventevolmente efficace. Mirabile infine, e destinata a depositarsi nella memoria, la scena del sogno di Riccardo, con l’enorme telo rosso che ricopre l’intero palcoscenico e sotto cui ondeggiano le fantasmatiche presenze delle vittime.
Riccardo è quanto mai attuale. La dilatazione abnorme del Sé, che esclude ogni pietà per l’altro, è la patologia del nostro tempo. Da più di 400 anni però, l’opera di Shakespeare ci ammonisce. Non considerare altro che il proprio ego, uccidere, anche solo metaforicamente, il nostro prossimo, calpestandolo, ci conduce, ineluttabilmente soli, su un deserto campo di battaglia, dove la sorte che ci attende non può essere che una: la disperazione e, infine, la morte.
Valter Chiappa
2 Settembre 2019