Recensione dello spettacolo Storie Bastarde con Fabio Avaro. Di Ariele Vincenti e Fabio Avaro, tratto dall’omonimo libro di Davide Desario. Regia di Ariele Vincenti. In scena al Teatro Ghione dal 7 maggio 2019 al 12 maggio 2019
Storie che sanno di polvere di strade non ancora asfaltate, dove rimbombano suoni distorti di palloni calciati male, finiti dalla parte opposta del marciapiede o contro una chiassosa serranda. Storie di mo ve lo buco sto pallone, perchè tra ragazzini di periferia non si giocava a calcio, che presupponeva una situazione più stutturata, bensì a pallone, dove il campo era la strada e le porte erano delimitate dai maglioni dei giocatori. Racconti di palazzi ancora in costruzione, di luoghi proibiti e gente strana da evitare, ma anche di amicizie nate proprio lì, tra una partita a pallone e una serata in spiaggia, e mai morte.
Storie di strada. Sono queste le suggestioni raccontate da Gigi (Fabio Avaro), che illustra la sua Ostia, quella della propria infanzia e adolescenza a cavallo degli anni ’70, in un periodo in cui la strada era ancora protagonista assoluta della vita di quelle persone che, anche da adulti, portano con loro quell’anima rauca e sdrucciorevole di chi quegli anni li ha vissuti fuori. Anni in cui in famiglia era la madre ad avere il grado militare più alto, quelli in cui la domenica mattina ad Ostia ci si preparava per andare a Roma, col vestito pulito e “guai a te se te sporchi”. Momenti in cui alla perfezione da mostrare in famiglia corrispondeva l’imperfezione di quando si stava in strada, come se già da bambini si avvertisse l’esigenza di conoscere ed integrare quella parte di sè meno incoraggiata, sicuramente più disubbidiente ma forse, proprio per questo, più affascinante. E la disubbedienza da strada di ciscuno, a volte sconfinava in una via senza uscita nè ritorno per altri, perchè in mezzo alla polvere, ai chiaroscuri della notte, alle ombre lunghe della pineta c’era chi uccideva Pasolini in quel 2 novembre del 1975, e chi, all’amore di una donna, aveva preferito quello della droga, compagna possessiva e gelosa di tutti quei ragazzi che volevano salvare l’amico di sempre. Anni dove le regole, spesso implicite per vivere in strada e per sopravvivere alla strada si imparavano presto, soprattutto se la strada era la Magliana...
Sembra muoversi per opposti il racconto di Avaro, dove al vissuto delicato ed interiore di un ragazzino prima e adolescente poi, viene contrapposta la repentina spietatezza del mondo esterno, quello che non perdona ingenuità, quello che dai cori da stadio già iniziati sugli autobus verdi delle domeniche pomeriggio, ti proietta, al posto di qualcun altro, dentro un comando dei carabinieri per una rissa tra tifoserie. Il testo, denso ed emotivamente coinvolgente, ispirato in due episodi dall’omonimo libro di Davide Desario, riattualizza nel presente la forza e l’essenza del passato, attraverso la puntuale scelta registica di Ariele Vincenti, di sostituire la narrazione di eventi trascorsi con la drammatizzazione degli stessi. Le tematiche, plasmate e rappresentate con taglio cinematografico, divengono simili a sequenze montate, ricche di stacchi improvvisi e salti temporali, ben assecondati dal disegno luci di Maximiliano Lumachi. Questi, nell’attimo infinitesimale dell’accensione di un led, diversifica con chiaroscuri egualmente repentini il colore emotivo della narrazione, riuscendo a snellire anche quei passaggi in cui il testo è sembrato ridondante e privo di ritmo. Particolarmente apprezzabile l’accento posto sul vissuto interiore del giovane Gigi riguardante il suo sentirsi a volte escluso e non sempre integrato nel gruppo, come quando si sceglievano i compagni per formare le squadre di calcio e lui era considerato un disparo, ovvero una persona di troppo che nessuno avrebbe voluto in squadra: testimonianza di come alcune umiliazioni, apparentemente momentanee, diventano ferite rimaste aperte che ancora bruciano nel ricordo e chiedono il loro riscatto nel presente. Partecipata la recitazione di Fabio Avaro delle sue storie bastarde che, pur non “raccontate” direttamente al pubblico in sala, ha questo come unico e reale referente, rappresentato idealmente da un amico di Avaro, cui l’attore chiede di assistere alle prove dello spettacolo. L’intera performance ha come filo conduttore una zanzara che infastidisce, nel vano intento di schiacciarla, i personaggi rappresentati di oggi e di ieri, presumibile metafora della pungente, ruvida e bastarda essenza della vita di strada.
Simone Marcari
12 maggio 2019