Lunedì, 25 Novembre 2024
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L’uomo dal fiore in bocca, una vana chimera del dramma pirandelliano

Recensione dello spettacolo L’uomo dal fiore in bocca in scena all’Ar.Ma Teatro il 9/10 e il 16/17 marzo 2019

 

Attaccarmi così – dico con l’immaginazione – alla vita. Come un rampicante attorno alle sbarre d’una cancellata. Ah, non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione: – aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri…


Un uomo che sa di avere ancora poco da vivere come può sentirsi, forse come un condannato a morte che non ha una via d’uscita? O come una persona rassegnata agli eventi che non riesce però a dominare quell’attaccamento all’esistenza, quel “gusto della vita che non si soddisfa mai”?


Il protagonista della commedia pirandelliana, L’uomo dal fiore in bocca, prova tutte queste sensazioni e non sa liberarsene, nonostante provi ad entrare ed uscire dalle vite degli altri per non sentire se stesso. Passa il tempo ad osservare vetrine e persone e da pochi dettagli inizia ad “immaginare” i loro vissuti, i loro stati d’animo, le loro case fino ad entrarci e andare ad abitare con loro. L’importante è non sentire quel vuoto che metterebbe a contatto con il dolore della separazione dalla vita e utilizzare questa immaginazione per “per sentirne il fastidio, per giudicarla sciocca e vana la vita, cosicché, veramente, non debba importare a nessuno di finirla”.
L’uomo dal fiore in bocca è affetto da un epitelioma che lo condurrà a breve alla morte e passa le sue giornate fuori casa evitando la moglie che lo insegue e lo vorrebbe a casa curato, accudito e protetto da lei, ma lui la rifiuta rabbiosamente e la maltratta perché ritiene le sue richieste improponibile per un uomo che si sente come una casa in cui sta per arrivare il terremoto. E qui Pirandello pone una lente d’ingrandimento sul modo d’intendere l’amore del maschile e del femminile: lui per amore salva lei allontanandola in modo rude e indelicato, lei invece cerca il contatto al punto da voler morire con lui. Le sue riflessioni filosofiche, la sua ricerca di significato della vita umana, le sue domande insolute le racconta in una sorta di flusso di coscienza, ad un ignaro avventore da lui definito “pacifico” che ha incontrato in un caffè aperto anche di notte. Questi ha perso il treno e deve aspettare alcune ore prima di partire, per cui si intrattiene volentieri a chiacchierare con lui. Sarebbe potuta essere una tranquilla e banale conversazione tra due sconosciuti, due uomini di mezz’età dall’aspetto borghese, invece diventa un effluvio di riflessioni sulla “morte addosso” all’essere umano dominato allo stesso tempo dalla pulsione a vivere, nonostante l’apparente insensatezza dell’esistenza umana e la bellezza che si ritrova solo nei ricordi. 
L’adattamento di Deborah Massaro rimane fedele al testo originario, senza modifiche sostanziali. Sempre la Massaro e Giusi Angheloni rispettivamente nei panni dell’Uomo dal fiore in bocca e dell’ Avventore, non riescono a caratterizzare perfettamente i loro personaggi che, specificamente nel  caso del protagonista, manca del necessario spessore e di complessità.
La scelta della regia di puntare su due donne nei ruoli maschili si è rivelata deludente, poiché è mancata un’interpretazione efficace e credibile non valorizzando adeguatamente la drammaturgia pirandelliana e lasciando il pubblico in sala poco convinto. Lo spazio scenico del piccolo e accogliente Ar.Ma Teatro è stato sfruttato bene con una scenografia che riproduceva adeguatamente le atmosfere della novella poi commedia del 1918, ma è mancato da parte delle attrici una completa adesione al testo e ai personaggi, per cui il risultato finale rimane sulla superficie.

 

Mena Zarrelli
12 marzo 2019

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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