#recensione dello spettacolo Game Over in scena al teatro Lo Spazio dal 19 al 24 gennaio 2016
«Nel teatro come nella letteratura ci sono storie che non vengono scritte per essere lette seduti comodi in poltrona o davanti un camino acceso e poi magari consigliate agli amici come se fossimo stati noi a scriverle; a volte queste storie, più o meno esplicitamente, ci avvertono che il viaggio non sarà confortevole, che la strada potrebbe essere senza via d’uscita e che qualsiasi compromesso sarà vietato»: è così, da queste dichiarazioni del regista Daniele Nuccetelli, che nasce Game Over, opera liberamente tratta dall'autobiografia testuale "L'equilibrista" di Maurizio Paparella, andato in scena dal 19 al 24 Gennaio presso il teatro Lo Spazio. Una vera e propria parabola discendente dove già il titolo serve a rendere l'idea di uno spettacolo che esce totalmente dalla logica lineare della narrazione classica. Un monologo?
In realtà qualcosa di più, una sorta di monologo scisso che, giunto ad un bivio, spezza se stesso in un dualismo interno che si esteriorizza sia sul palco che sullo schermo montato alle spalle dei due attori.
Due, infatti, gli attori ai quali vengono affidate le chiavi del racconto. Chiavi che forzano la serratura di un antro troppo spesso così facile da dischiudere ma che raramente diventa un uscio attraversato da sprazzi di luce: quello del gioco d'azzardo. Un tema scomodo, spesso banalizzato o comunque sottovalutato se non, addirittura minimizzato allo status di vizioso vezzo. Ed è così che si materializza sulla scena: dapprima una scommessa, un gioco tra adolescenti troppo annoiati da una piatta società, quindi una sfida alla fortuna e al fato che, se dapprima mostra i suoi occhi ammalianti e accondiscendenti - quasi da prendere per il naso e giostrare a piacimento - non fa altro che tendere l'amo, scoprendo gli artigli beffardi e gli sguardi penetranti di un sordido destino. La malattia del gioco, attraverso la narrazione di una vita, quella del protagonista sempre in lotta contro l'antagonista più pericoloso e infimo: se stesso.
Ecco che sul palco, grazie ad un'abile ed intelligente rilettura del testo, il protagonista si sdoppia: da un lato lui (Daniele Nuccetelli stesso) alle prese con la sua malattia, la sua storia, il suo passato ed un presente sempre in bilico, dall'altro tutta l'ambiguità, la voluttuosità, la malia e la sfrontatezza dell'altro "io" (interpretato con enorme maestria ed espressività da un'ottima Ida Vinella): quel se stesso che si stacca dall'animo e prende totalmente forma dalle ombre dell'abisso, pur rimanendo sempre tanto spirituale ed etereo quanto forte e passionalmente avvolgente. Importante, poi, la simbologia: dalle ombre che si stagliano sullo sfondo e che mentre si rincorrono tendono a perdersi per poi indissolubilmente fondersi, alla mela addentata dall'altro se stesso con viva voracità; dall'aspirapolvere che succhia tutti i risparmi di una vita fino all'immagine stessa dell'alter ego, un po' metafora di uno sdoppiamento, come detto, ma anche emblema del gioco stesso e dell'azzardo, ben visibile in tutti i ghigni, i sorrisi e le tentazioni che mette sul piatto e che propone sul "tavolo verde" dinnanzi ad una personalità fin troppo debole e che, sempre più, con il passare della narrazione, tende a scolorirsi.
Ottima l'interpretazione, quindi, di questa parabola di declino, di questa cronaca di vita che si affaccia ripetutamente sul baratro e perfetta quanto puntuale anche la simbologia evocativa di una realtà che si sfalda sotto i piedi, quasi come neve al sole. Da appuntare solamente una certa linea fin troppo piatta nella narrazione, alla quale manca a tratti il ritmo potenziale che potrebbe assumere andando, magari, più in profondità nella coscienza del personaggio che resta, così, troppo attaccato più al testo cartaceo e al racconto morale piuttosto che avventurarsi, con maniche alzate pronte a sporcarsi, nel fango melmoso della malattia del gioco. Così lui, pur rappresentando con ordine tutte le fasi del declino, sembra quasi come se rimanesse sempre aleggiante tra un imo scuro e impervio e una redenzione troppo a portata di mano, come se mancasse per larghi la rappresentazione scenica del vero quid dell'inconscio malessere che, invece, rimane troppo ancorato al racconto, più che all'azione.
Infine, mi piace concludere il tutto con un'altra dichiarazione di Nuccetelli, tratta sempre da una sua intervista sullo spettacolo: «Dopo l’incredibile esperienza che fu la lettura di quel manoscritto, conobbi l’uomo che aveva vissuto davvero tutta quella storia. Siamo diventati amici ma solo dopo avermi fatto una domanda mi autorizzò a scrivere l’adattamento teatrale ispirato alla sua vita. La domanda era: Pensi di farcela a morire da vivo? Ci siamo guardati a lungo, in silenzio», game over.
Federico Cirillo
27 gennaio 2016