Recensione dello spettacolo Carmen in scena presso le Terme di Caracalla dal 14 luglio al 2 agosto 2018
Tagliamo subito la testa al toro: la Carmen messa in scena alle Terme di Caracalla con la regia di Valentina Carrasco è uno spettacolo da non perdere. Torna dopo un anno esatto nell’affascinante e suggestivo palcoscenico e paesaggio naturale che può fregiarsi di quella cornice mozzafiato che è l’antica Roma e subito sa coinvolgere e trascinare con la sua spinta innovativa, azzardata e, perché no, anche un po’ irriverente: proprio come la Carmencita, insomma.
Il riadattamento della Carrasco vive, infatti, dell’anima ardente e focoso della protagonista – un’eccellente KetevanKemoklidze - e lascia completamente a bocca aperta gli spettatori grazie una scenografia strabiliante. D’altronde, se vi state chiedendo come rendere un’opera già di per sé talmente perfetta da un punto di vista musicale e di arie e talmente avvincente dal punto di vista della trama e dell’appassionante intreccio, beh la Carrasco ci è sicuramente riuscita.
Siamo in Messico e non a Siviglia, ovviamente si recita e canta in francese – il maestro Bizet docet – e questo meltingpot letterario e scenico (che quasi potremmo chiamare melting plot) dal sangue misto e caliente è presto spiegato dalla regista stessa in un’intervista:
“Per rendere sulla scena la misura del valore di un personaggio come Carmen è importante riprodurre un contesto dove le limitazioni per una donna e le differenze sociali siano evidenti. Abbiamo scelto la frontiera tra gli Stati Uniti e il Messico per sottolineare l’attualità di tanti aspetti della storia di Carmen quali la separazione sociale, che esiste ed è presente nell’immaginario collettivo tra americani e latini, e la forte pulsione maschilista, da cui sono segnati entrambi questi paesi oggi. Sulla frontiera inoltre ci sono i contrabbandieri che, nel nostro caso, non fanno passare merce, ma persone trattate come merce. Un’altra caratteristica del Messico che ci ha attratti, a parte aspetti aneddotici come il fatto che è un paese dove il combattimento di tori è di grande popolarità, è il suo folklore, che ci ha permesso di costruire una scena molto colorata, piena di episodi che favoriscono lo svolgimento di uno spettacolo destinato anche a un pubblico non necessariamente abituato all’opera”.
Ed intuizione non poteva essere migliore. Le radici dell’opera, infatti, tra un habanera ispanico-cubana e una corrida machista traggono beneficio e nuovo splendore dall’immaginario terreno messicano: dai deserti polverosi delle terre al confine con gli USA, ai tratti segnati di vita dei visi di migliaia di desperados che ogni giorno provano ad andare oltre la linea sotto l’ardente anello di fuoco, fino ad arrivare alle atmosfere sordide e roventi al sapor di mezcal dei bar in cui si tramano traffici, amore e passione, passando attraverso quella costante e suadente danza di morte soffiata e canticchiata – ora in lontananza ora sibilata in un orecchio – dal destino.
Un destino, quello della Carmen, già scritto nelle carte, già tracciato in tutto il percorso e incarnato e tangibile in una fanciulla di bianco vestita, presente in scena nei momenti più drammatici, pronta ad allungare la sua mano in direzione della protagonista che balla, senza sosta, a mo’ di sfida, attraverso il fuoco, ora sinuoso ora pericoloso, della passione.
Il clou, poi, arriva al momento dell’atto finale: la torcida della corrida non è solo per l’attesa del delitto che, per mano di Don Josè (AndekaGorrotxategui), porrà fine alla vita di Carmen, ma è soprattutto per la preparazione ad esso. Ad entrare in scena, infatti, è una vera e propria riproposizione della NuestraSeñora de la Santa Muerte che, anticipata da una forsennata danza degli scheletri, si palesa in tutta la sua magnificenza sul palco di Caracalla: lì dove “i morti fan festa” si consuma l’ultimo letale atto, in perfetta linea con la vita sempre al limite della bella sigaraia.
La tragedia finale, d’altronde, si era intuita già inizialmente dall’ overture: nel caos di profughi e guardie, un cadavere viene portato via avvolto in un lenzuolo bianco.
La storia di Bizet, grondante di sensualità, musica e con la morte sempre dietro l’angolo è tutta racchiusa in uno spettacolo di 4 atti che si lascia ammirare, accarezzare e che poi trascina, proprio come un toro alla corrida: geniali gli effetti grafici che ricreano i territori tra America occidentale e America Latina, proiettati sui resti di una Roma imperiale che fu e che osserva, spettatrice ammaliata.
A sottolineare il carattere originale dell’opera della regista argentina, anche l’abilità di saper inserire con puntuale e accurata attenzione, temi di attualità scottante: un giornale radio racconta in spagnolo la tragedia dei minori separati dai genitori al confine, durante il cambio scena tra il primo e il secondo atto, mentre murales “anti-Trump” sono ben visibili sui muri di confine. D’altronde anche in questo caso è una sorta di riproposizione: come Bizet volle un po’ provocare e sorprendere il francese pubblico di allora con quest’opera, così anche oggi, in modo intelligente, lo si fa.
Sul podio, l’enfant prodige Ryan McAdams, direttore d’orchestra pluripremiato a soli 36 anni, dirige con esperienza ed abilità l’orchestra, facendo canticchiare le celebri arie (dall’overture al toreador) a tutti gli spettatori.
Dalla Siviglia del 1820 a Città del Messico 2018 lo spirito della Carmen viaggia ma rimane intatto e pregno di significati importanti. La Carmen per tutta l’opera ed in tutti i tempi e luoghi, rimane il ritratto della donna, di colei che mette in campo tutti i suoi valori e i suoi modi di agire: incostanti delle volte, certo, ma sempre insofferenti a qualsiasi tipo di stortura o di sopruso e che rimane impertinente e sfidante nei confronti di chi vuole decretarne il mero possesso. La Carmen, insomma, è sinonimo tutt’oggi di libertà.
Federico Cirillo
21 luglio 2018