Recensione dello spettacolo ‘Il nome della rosa’ in scena al Teatro Argentina dal 23 gennaio al 4 febbraio 2018
Quando un romanzo viene tradotto in 47 lingue, riceve un Premio Strega e diventa un lungometraggio firmato da Jean-Jacques Annaud con protagonista un attore incredibile come Sean Connery, potrebbe sembrare che i mezzi di comunicazione usati per diffonderne il contenuto siano terminati, e invece non è così. Stefano Massini, scrittore e drammaturgo, autore di “Lehman Trilogy”, ha avuto l’ardire e il coraggio di confrontarsi con uno dei più noti testi di Umberto Eco, ‘Il nome della rosa’, di riscriverlo e reinterpretarlo per un pubblico nuovo, quello teatrale. Ecco, quindi, come uno degli autori di teatro più apprezzati del nostro Paese, sia riuscito ad adattare questo capolavoro della nostra letteratura per farlo rivivere agli occhi del pubblico in un modo e con uno slancio diversi.
Per riuscire ad assistere alla versione teatrale di ‘Il nome della rosa’, lo spettatore deve necessariamente lasciarsi alle spalle il film e fruire dello spettacolo in modo genuino e ingenuo, come se nulla avesse visto in precedenza, ma tenendo come solo e unico punto di riferimento il romanzo originale. In questo modo, ci si appassiona e si apprezza l’adattamento di Massini ancora di più poiché viene messo in scena dal regista Leo Muscato, il cui impegno nella trasposizone teatrale è ben evidente dal modo in cui ha impostato l’azione dei personaggi e in cui li dirige alla ricerca della verità. Il romanzo torna così in vita in una versione che ne sfida i diversi livelli di lettura riuscendoci: è così che le indagini del frate francescano Guglielmo da Baskerville e del suo allievo, Adso da Melk, sbarcano anche su un palcoscenico.
Massini rende la storia di Guglielmo e Adso un lavoro corale in cui si intravedono, si mescolano e si sovrappongono le diverse chiavi di lettura che rendono quest’opera complessa: non mancano, infatti, i sottili giochi di metafore, i riferimenti colti, l’attualità dei temi e lo scontro tra oscurantismo e liberalismo che lasciano anche spazio all’ironia sfruttando i ritmi e gli schemi propri del romanzo giallo.
Arricchito dall’uso di videopriezioni, che contribuiscono a rendere palpabili le atmosfere cupe e oscure dell’abbazia medievale, lo spettacolo si regge sul carisma e il talento di tredici attori che sul palco si muovono, si cercano e si rincorrono con un ritmo serrato: degni di nota Luca Lazzareschi e Giovanni Anzaldo, che formano una coppia di investigatori d’eccezione nei panni rispettivamente di Guglielmo da Baskerville e Adso, mentre Luigi Diberti interpreta un Adso ormai anziano che ricorda e narra la misteriosa vicenda degli omicidi dell’abbazia. È proprio la presenza di questo ‘Io’ narrante a sedurre il pubblico fin dalle prime battute: lo spettatore segue con passione la vicenda e si emoziona quando vede i due Adso insieme sul palco ragionare su quelli che per l’uno sono ricordi e per l’altro fatti attuali. Insieme a loro, spiccano inevitabilmente Eugenio Allegri nel ruolo del mistico Ubertino da Casale, vechcio compagno di studi di Guglielmo, e Renato Carpentieri che veste i panni del venerabile Jorge. Particolarmente notevole l’interpretazione di Alfonso Postiglione, noto per il personaggio di O’ Fringuello in ‘Gomorra La serie’, che qui si cimenta nel ruolo di Salvatore l’eretico, uno dei personaggi più particolari e forse per questo più amati del romanzo, caratterizzato in modo incredibile tra battute disconnesse ma evocative e quel fare demenziale.
Ad arricchire la messinscena anche la scenografia curata da Margherita Palli dal taglio essenziale e minimalista, mentre le luci di Alessandro Verazzi, sottolineano con evidente intensità le diverse scene diventando ora sacre quando illuminano l’abbazia, ora indagatrici quando seguono Guglielmo e Adso, e ora rivelatrici nel momento clou del confronto tra Guglielmo e Jorge.
Tirando le somme, questo spettacolo ha il pregio di essersi reso del tutto indipendente dal lungometraggio, arrivando al pubblico come efficace e riuscito omaggio al romanzo di Eco.
Diana Della Mura
3 febbraio 2018