Venerdì, 22 Novembre 2024
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Il viaggio di Arkady non va tanto lontano

Recensione dello spettacolo Arkady andato in scena al Teatro Trastevere dal 23 al 26 gennaio 2018

 

C’è Arkady (Giulio Clerici), questo giovane di origini moldavo-russe che aveva aspirazioni da poeta ma è finito a fare il camionista. C’è suo Padre (Simone Caporossi), un dissidente finito in miseria una volta caduto il regime. C’è Alina (Alice Giorgi), giovane studentessa appassionata di Storia Contemporanea e prossima a dare una tesi sulla nostalgia dei russi per l’Unione Sovietica. E infine, ma all’inizio, c’è Azazael (Ana Kusch): burattinaia, grillo parlante, alter ego: il suo accento straniero e il fatto che sappia un sacco di cose passate e future suggerisce queste e molte altre ipotesi.

Il viaggio di Arkady è perennemente scandito da tappe prestabilite: si parte da Taranto, si fa sosta a Le Havre, si arriva fino a Cabo de Roca e ritorno. La frustrazione per i sogni mai realizzati, il lavoro alienante e il complesso rapporto con il ricordo del padre non sono i suoi unici problemi: il più grande dei quali, però, è certamente il sonno. Un nemico che lo attanaglia ogni chilometro di più, che si insinua in ogni curva e lo ghermisce fin dentro l’abitacolo del suo enorme mezzo: ed è nel torpore dell’onirico che si confondono le favolette paterne, la voce di Alina e la mal gestita attrazione da lei suscitata, i presagi di Azazael.

Il nuovo lavoro della compagnia Anonima Sette, scritto da Giacomo Sette e diretto ancora una volta da Azzurra Lochi, si pone grandi ambizioni: attraverso la saga individuale di un ragazzone originario dell’Est Europa e i suoi turbamenti interiori si vogliono indagare anche quelli di una generazione che ha vissuto nelle privazioni del Comunismo mal applicato, ritrovandosi di colpo proiettata nell’Occidente contemporaneo con tutte le sue seducenti contraddizioni. Purtroppo, però, parecchio non funziona: perché se l’inflessione e le movenze di Ana Kusch riescono a creare un’atmosfera straniera e straniante, lo stesso non può dirsi delle prove di Simone Caporossi - vagamente impacciato per buona parte dello spettacolo – e, soprattutto, del protagonista. Giulio Clerici, infatti, risulta poco incisivo e discontinuo intervallando momenti più intensi ad altri nei quali sembra perdere il contatto con il proprio personaggio: il risultato è una recitazione intermittente, dove né il poeta né il camionista riescono ad affiorare dall’attore per giungere compiutamente al pubblico. In aperta antitesi con una figura che dovrebbe essere minore ma, inevitabilmente, rimane l’unica impressa: quella Alina magistralmente e commoventemente interpretata da Alice Giorgi. Infatti, come se non bastassero le sue eccellenti doti vocali, sfruttate drammaturgicamente con intelligenza per sottolineare un passaggio o creare un mood, è con il suo breve monologo che si accende e riscalda uno spettacolo tutto sommato tiepido nella sua imperfezione: accompagnandolo verso un finale che spinge a chiederne conto.


Cristian Pandolfino

30 gennaio 2018

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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