Recensione di Dall’alto di una fredda torre, in scena al Teatro Argot dal 4 ottobre 2017
Il dramma di una malattia che avanza inesorabile e mortale sconvolge le vite e le menti di fratello e sorella. Si impone una scelta tragica: chi salvare tra il padre e la madre?
Dall’alto di una fredda torre affronta un’inquietante antinomia: se sia giusto o meno intervenire modificando il destino degli altri, sostituendosi ad esso e prendendosi l’enorme e pesantissima responsabilità di decidere della vita e della morte di qualcun altro.
La vita di una famiglia come ce ne sono tante, con i propri quotidiani conflitti, ma serena, viene stravolta da un evento tragico: entrambi i genitori sono affetti da una malattia mortale e rarissima.
L’unica soluzione è quella di un trapianto di cellule staminali prelevate dai parenti più prossimi. I soli parenti della coppia sono i due figli, Antonio ed Elena: solo Elena è compatibile per il trapianto, ma non può essere sottoposta a due interventi consecutivi in così breve tempo.
A questo punto è necessario decidere: chi salvare?
In quattordici quadri si dipana una tragedia umana e familiare. La quotidianità della famiglia viene stravolta. Soprattutto, la vita di Antonio ed Elena entra in un lungo tunnel buio che sembra senza fine. I genitori sono all’oscuro di tutto. Il peso della scelta grava solo sui figli.
Il bellissimo e drammatico testo di Filippo Gili affonda con angosciosa lucidità nella disperazione di due figli.
In un intenso percorso drammaturgico lo spettatore conosce i quattro protagonisti nelle loro sfumature psicologiche. Attraverso i discorsi affrontati a tavola entra in contatto col mondo interiore di ognuno conoscendone il pensiero sui vari aspetti della vita e della morte.
Un gioco di ipotesi cominciato durante un pasto in famiglia si trasforma, ironia della sorte, in una tragica realtà a parti inverse.
Come in una lenta infusione, si passa dal clima di serenità e quiete familiare, fatto dei discorsi di tutti i giorni o argomenti più seri affrontati senza una reale consapevolezza, al dramma esistenziale di due figli che si trovano a doversi sostituire a Dio e decidere della vita e della morte dei propri genitori.
Così, come quando si versa acqua bollente su delle erbe per estrarne l’essenza, sui due giovani incombe un fato funesto che li porterà a doversi confrontare con se stessi, con l’amore per i propri genitori, con l’ingiustizia della vita e con un futuro di solitudine.
Il testo scatena riflessioni esistenziali, scavando a fondo nella psicologia di tutti e sei i protagonisti e restituendo, con scambi dialettici rapidi, feroci e sferzanti, ma anche lunghi silenzi, tutta la rabbia e la frustrazione dettate da un’impotenza che paralizza cuore e mente e che esplodono con la devastazione di un cataclisma spezzando tutti gli argini.
Allo stesso tempo crea un effetto di identificazione nello spettatore, sollevando nella sua mente e coscienza una serie di amare e drammatiche considerazioni e dubbi morali su questioni primarie e fondamentali, sul senso stesso della scelta.
Scegliere della vita e della morte di qualcuno, tra l’altro di qualcuno che si ama in maniera assoluta, ma, soprattutto, prendere consapevolezza che anche non scegliere fa parte della scelta.
Potrebbe sembrare che Antonio ed Elena sottovalutino i propri genitori celando loro la verità e negando loro la possibilità di scegliere autonomamente del proprio destino, ma essi li conoscono bene e sanno come reagirebbero alla notizia, caricandosi così di un enorme peso che graverà per sempre sulle loro coscienze.
Di contro viene rappresentato un punto di vista altro che è quello dei medici, della scienza che deve andare avanti a tutti i costi, in virtù del principio del male minore: scegliere chi sacrificare affinché l’altro possa sopravvivere si impone come un imperativo categorico e deontologico a cui non ci si può sottrarre. L’etica professionale, però, del bellissimo e rigido personaggio della dottoressa, rischia di diventare una scusa dietro cui nascondere una tracotanza che porta a sostituirsi al fato o a Dio.
Anche la divisione dello spazio scenico e il disegno luci sono ottimamente funzionali al testo e ai messaggi espressi. Di volta in volta vengono messi a fuoco tre ambienti diversi: al centro il tavolo da pranzo dove la famiglia si ritrova parlando della vita quotidiana; ad un estremo lo studio medico in cui il dramma ha inizio e si svolge nello scontro tra coscienze, tra cosa sarebbe necessario fare e cosa si è disposti a fare; all’alto estremo il salotto di un’altra casa in cui fratello e sorella si incontrano per confrontarsi, consolarsi e scontrarsi buttando fuori tutto il proprio dolore, manifestando i propri incubi, una sorta di spazio della coscienza. Intorno sta il pubblico, a stretto contatto con i personaggi e la loro storia.
Il testo, oltre alla tragicità della vicenda, regala intensi momenti di commozione e di tenerezza in un meccanismo di privazione che tiene l’anima sempre sospesa: appena essa si turba fino quasi a far lacrimare, subito quel moto che ha creato l’emozione viene sostituito da altro, che siano gli intensi scontri verbali oppure i lunghi silenzi carichi di dolore, tormento, indecisione e senso di colpa.
In scena sei attori di straordinaria bravura che abbracciano con tutti se stessi questi personaggi doandogli voce e corpo, facendoli vivere nei loro gesti, nelle loro espressioni così cariche di pathos in una recitazione viscerale.
La regia di Francesco Frangipane è precisa e tagliente. Non indugia nel pietismo, ma si concentra sulle emozioni e sulle azioni e reazioni che esse dettano. La suddivisone in spazi scenici rappresenta i compartimenti stagni in cui spesso siamo costretti a dover dividere i vari eventi della vita per evitare di impazzire e soccombere a certe emozioni, sofferenze e frustrazioni. Eppure la vita è un flusso e le contaminazioni tra spazi sono inevitabili. E’ a quel punto che scopriamo quanto siamo capaci di sopportare.
Flaminio Boni
05 ottobre 2017
informazioni
Dall’alto di una fredda torre
Argot Produzioni
Di Filippo Gili
Regia Francesco Frangipane
Con Massimiliano Benvenuto, Ermanno De Biagi, Michela Martini, Aglaia Mora, Matteo Quinzi
Musiche Jonis Bascir
Scenografia Francesco Ghisu
Costumi Sabrina Beretta
Light designer Giuseppe Filipponio