“Lei scrive, scrive, ma il guaio è che prova più gusto a scrivere che a leggere, mentre scrivere vuol dire dire partecipare a un lavoro collettivo, avere una propria idea della situazione della letteratura attuale e di una direzione verso la quale si vuole svilupparla. Se no le cose che Lei scrive, belle o brutte che siano, non entrano nel discorso generale, cioè non servono.” Così Calvino a Stelio Mattoni il 17 Maggio del 1965: tralasciando le circostanze specifiche che portano l'autore-editore-innovatore – di cui ricorre il centenario quest'anno- a scrivere a Mattoni, quel che interessa è la concezione emersa chiaramente in queste poche righe. Scrivere vuol dire non leggere ma aver già letto, aver chiaro dove sia già stata la letteratura e dove ancora possa stare. Il talento letterario non può che essere sostenuto da un'assidua frequentazione con i modelli: idea che accompagnerà Calvino fin negli ultimi anni. Come fatto notare efficacemente da Eraldo Bellini ( Calvino e i classici italiani, Eraldo Bellini, Edizioni Ets, 2019), tale predisposizione d'animo doveva essergli nata dal ruolo di editore e consulente che ricoprì per Enaudi ma ciò non toglie che tale convinzione fu talmente salda da guidarne la penna vita natural durante. Ancora illuminanti, a tal proposito, le pagine che aprono il catalogo della mostra di Tullio Pericoli Rubare a Klee, scritte vent'anni più tardi. La poesia nasce sempre da altra poesia, anche se tale nascita si configura necessariamente come un furto, anche se inconsapevole: è quanto sostiene lo scrittore in queste poche pagine. Quanto alla sua esperienza, Calvino si difende dalla mancanza di consapevolezza: io ho sempre avuto coscienza di prendere dei prestiti. Ed ancora, la suggestiva definizione di lettura :“ Forse la lettura è già questo un furto. C'è questa cosa lì, chiusa, questo oggetto da cui si carpisce qualcosa che c'è chiuso dentro. C'è uno scassinamento, c'è un furto con scasso in ogni vera lettura.”
E, proprio lui che stabilisce l'avere un modello come la condizione prima e non derogabile dell'essere scrittori, di modelli non parla mai, o quasi. Quando ne parla, dunque, c'è da fare attenzione: e sono due i grandi nomi fatti da Calvino; Lucrezio ed Ovidio.
Ovidio modello di Calvino
Per Calvino, Ovidio non può che essere un modello. Studi recenti della critica hanno dimostrato di come alcune delle lezioni americane ricalchino prerogative della scrittura ovidiana, come leggerezza e rapidità. Pensiamo alle Metamorfosi, l'opera più celebre dello scrittore latino. Calvino legge le Metamorfosi come il poema della rapidità, dell'incontrollabile e costante cambio di forma, come riporterà poi nel famosissimo saggio Gli indistinti confini. Sarà Asor Rosa a commentare la tendenza di Calvino ad attribuire alle letterature caratteri fisici. Ed indovinate? Lo stesso Ovidio aveva la tendenza nelle metamorfosi ad usare epiteti che non fossero soggettivi e che si attenessero alla sfera fisica. Facciamo qualche esempio più specifico. Parliamo della leggerezza: nel primo libro delle metamorfosi Ovidio parla di leggerezza, attribuendola all'aria. Una definizione simile in Calvino. Esempi del genere sono riscontrabili per la maggior parte degli aggettivi usati dallo scrittore nelle lezioni americane.
Per aggiungere un ulteriore tassello al nostro quadro, ricordiamoci che Ovidio, come Calvino, era uno scrittore cosmico. Quando il racconto metamorfico di Ovidio inizia e finisce, inizia e finisce con lui un mondo: ed è difficile pensare che questo fosse sfuggito allo scrittore cosmogonico Calvino.
Gli Indistinti Confini: Calvino commenta Ovidio
Il commento più compiuto ad Ovidio è sicuramente nel già citato saggio “gli indistinti confini”; Calvino, abilissimo costruttore, inizia dandoci la fondamentale nozione introduttiva perché sia facile seguirlo successivamente. Il mondo degli umani ed il mondo degli dei sono vicini: sono così vicini che, nel parlare dell'Olimpio, lo scrittore latino lo rassomiglia al Palatino. Il mito si configura quindi come il campo privilegiato di scontro in cui uomini, dei e natura si mescolano senza soluzioni di contiguità: e lo scontro è così contraddittorio da non potersi risolvere. Ed Ovidio, secondo Calvino, non ci pensa neppure, a risolverlo. Le metamorfosi stanno come un simbolo onnicomprensivo di tutto, dove ogni cosa è compresa e solo intuibile, senza essere esplicitata. Tant'è che, poco più avanti nel saggio, figura la definizione di Enciclopedia. Ma veniamo al punto che più di tutti ha segnato il giudizio critico sulle Metamorfosi ovidiane. Riporto ancora una frase, divenuta quasi etichetta: “Le metamorfosi sono il poema della rapidità, tutto deve succedersi ad un ritmo serrato...”
Calvino commenta la tecnica di Ovidio: lo scrittore latino si limita, come un seriale, ad accumulare, accumulare scene ed immagini. Tali immagini sono rapide e quasi elusive. La materia del poema ovidiano non è una materia definita, tanto da sembrare al lettore più sparuto un mare magno senza ordine: all'interno della cornice cronologica, debole tentativo di classificazione,i racconti si seguono ordinati di volta in volta da un criterio diverso: affinità tematiche, geografiche, linguistiche...
Una rilettura moderna?
Le metamorfosi raccontate da Ovidio dunque non sono mai ordinate, difficilmente si inseriscono in confini distinti. Una parte della critica ovidiana ha visto le trasformazioni come la rivelazione di istanze di verità. In altre parole: la metamorfosi rivela quel che c'era già prima ed è di conseguenza un processo di disvelamento. Se si coniuga questa considerazione con i commenti calviniani, ci si chiede se Ovidio possa in tal senso dire qualcosa a noi moderni. Le metamorfosi sono forse il processo di un'identità che riposa in noi ma che al contempo non è mai definita? Per avere una risposta, non resta che, su suggerimento di Calvino e sotto la sua egida, rispolverare il faticoso tomo delle Metamorfosi.
Serena Garofalo
24 settembre 2023
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Crediti foto: Johan Brun