Sabato, 23 Novembre 2024
$ £

Daniela Barcellona ci apre le porte del suo mondo prezioso

In questi giorni è in scena al Teatro Verdi ‘Orfeo ed Euridice’, spettacolo che segna il ritorno sulle scene triestine del mezzosoprano Daniela Barcellona, sicuramente una delle artiste più apprezzate nella scena lirica mondiale  e massima interprete attuale del  ‘Rossini serio’.

I suoi ruoli en traversi hanno scritto la storia dell’opera di questi anni, grazie ad una tecnica inossidabile, costruita grazie al marito , il Maestro Alessandro Vitiello; ad una capacità interpretativa fuori dal comune e da un carisma che riesce a magnetizzare il pubblico, a trascinarlo in una dimensione metafisica, magica e poetica.

Siamo davanti ad una artista vera, che ha saputo costruire la carriera con dedizione, studio appassionato, responsabilità.  Una cantante che non ha forzato le tappe, che ha saputo rispettare il suo prezioso strumento vovale, ma anche il pubblico, al quale ha consegnato sempre prove di grande spessore. Impossibile elencare i trionfi, i premi vinti, i colleghi con cui si è esibita. Ha avuto il coraggio di mettersi in gioco in allestimenti complessi, ha lavorato con tutti i più grandi registi, si è esibita nei maggiori teatri , dalla Scala al Metropolitan, dalla Royal Opera House al teatro Real di Madrid, passando per Parigi, Salisburgo, Vienna, Chicago, Barcellona, l’Australia, il Giappone , ma esibendosi anche in moltissimi teatri italiani, dando prova di sensibilità e disponibilità.

Durante il Covid ha addirittura partecipato ad un’opera in smartworking: ‘Alienati’, prodotta dal teatro Coccia di Novara. Insomma una ‘Divina’ che non gioca a fare la Diva. Una donna vera, che sa dedicarsi agli altri, ai giovani cantanti, che organizza iniziative benefiche, che lavora con esordienti o grandi maestri, conscia dell’importanza di seminare passione, di regalare momenti di autentica poesia in momenti così complessi. L’allestimento di questo ‘Orfeo ed Euridice’ è stato molto impegnativo, ma la signora Barcellona ha accettato con grande disponibilità di  rispondere ad  una lunga serie di domande che ripercorrono la sua carriera,  raccontano il presente e tratteggiano il futuro che si aspetta.

Un documento prezioso per conoscere questa magnifica interprete, che si è raccontata in modo divertito, accompagnando le risposte con franche risate, per esempio quando  è stata definita ‘ nerboruto soldato’;  con pause che raccontano la stima personale e l’affetto per il tenore triestino Carlo Cossutta; con un luminoso sorriso, che inonda le parole con cui descrive il lavoro che fa con il marito; con un tono rattristato nel descrivere il disagio, autentico  e profondo, davanti agli hater che infestano il nostro mondo e quello dell’opera in modo particolare. Cominciamo quindi il nostro viaggio nel mondo della Signora Daniela Barcellona…

 

Grazie prima di tutto di aver accettato  di raccontarsi attraverso e risposte alle nostre domande. Lei è nata ed ha studiato a Trieste, la città della sua mamma, ma è figlia di un siciliano. Cosà c’è in lei di profondamente triestino e cosa di siciliano che si porta dietro, nonostante sia da anni una cittadina del mondo, la più internazionale delle cantanti italiane?

Sicuramente avendo queste origini siciliano- triestine, porto dentro di me i due caratteri del Nord e del Sud che mi hanno aiutato a sviluppare i personaggi,  l’espressività. Avendo il papà siciliano, pur non vivendo  in quell’isola, ma frequentandola spesso, andando a trovare i nonni e lo zio,  ho potuto assorbire la cultura siciliana, conoscere le abitudini, la vita quotidiana.

Il mio modo di proporre la musica ed i personaggi  contiene dentro di sé tutte e due queste culture straordinarie.

Ovviamente essendo io vissuta a Trieste, amando moltissimo la mia città,  probabilmente la mia ‘triestinità’ è più diretta, più evidente, ma nel mio cuore la Sicilia ha un posto importante.

 

Al conservatorio conosce il Maestro Alessandro Vitiello, musicista coltissimo, pianista raffinato, direttore d’orchestra di grande valore, che diventa il suo unico maestro di tecnica vocale ed è anche  l'autore di tutte le variazioni musicali che lei esegue. Cosa ha significato per lei come artista avere accanto una figura di così grande spessore ?  E’ stato difficile, agli inizi,  affidargli completamente il suo futuro professionale ed artistico?

In realtà io non ho fatto il Conservatorio. Ho conosciuto il Maestro Vitiello, Alessandro, a casa sua. Dovevamo  fare un Concerto al Circolo ufficiali a  Trieste, avevamo tanti amici in comune, ma all’epoca non ci conoscevamo .   A quel tempo cantavo nella Cappella Civica di San Giusto in maniera amatoriale e dovevo prepararmi per questo concerto.  Mi diedero il suo nominativo ed andai da lui. Alessandro mi disse che aveva studiato tecnica vocale con l’insegnante di Elisabeth Schwarzkopf e Nicolai Gedda, che lo aveva preso sotto la sua ala protettrice all’Accademia di Mantova e gli aveva insegnato moltissimi segreti della tecnica vocale, ma soprattutto si offrì di condividere con me le sue conoscenze. Così iniziò il nostro lavoro insieme. Affidarmi completamente a lui non è stato assolutamente difficile, perché ho avuto da subito  la consapevolezza della sua competenza, della sua preparazione, della serietà, a livello musicale ed anche tecnico. Con simili premesse è stato semplice affidargli il mio futuro canoro.

 

Una curiosità: lei ed il Maestro Vitiello state per festeggiare le nozze d’argento. Una coppia così affiatata come fa ad affrontare  la tensione dei debutti, gli imprevisti in scena e tutte quelle traversie che allarmano i cantanti lirici?

Abbiamo già festeggiato le nozze d’argento: venticinque anni di matrimonio, preceduti da cinque di fidanzamento. Stiamo per arrivare a trent’anni di vita insieme. In questi anni ho  seguito Alessandro in tantissimi concerti, direzioni di opere, così come lui segue me nei miei debutti, in tutte le mie prime, sopportando tutte le ansie del caso. Avere accanto una persona che conosce perfettamente il lavoro, nel mio caso addirittura con la quale ho studiato, rende meno complessa la situazione, perché si rende perfettamente conto delle difficoltà che si devono affrontare dal punto di vista psicologico, tecnico, fisico. Alessandro è molto, molto comprensivo. Questo non toglie – la signora mentre dice questo ride- che sia sempre difficile stare vicino ad un cantante, perché alle volte noi cantanti ci facciamo tanti problemi che in realtà non ci sono, dalla voce al catarrino a mille altre ansie immotivate. Penso proprio che sia molto stressante. Ma l’importante è avere una  persona vicino che ti dia tutto il suo appoggio, che , come fa Alessandro, ti supporti e ti sopporti.

 

Ogni tanto, come nella ‘Semiramide’ a Bilbao nel 2019,  canta diretta da suo marito. Risulta più facile o più complesso rispetto ad un direttore meno vicino umanamente?

Essere diretta da Alessandro è molto più semplice, perché ormai c’è un’intesa fortissima. Nel caso di ‘Semiramide’, poi, la corrispondenza era totale, perché la parte l’ho studiata con lui fin dagli inizi, dal debutto del ruolo. In questo caso quindi il feeling era diverso, profondissimo. Anche in scena la condizione è differente, perché io so esattamente cosa lui si aspetta da me e lui sa perfettamente di cosa ho bisogno io.  Conoscere di cosa ha bisogno l’altro ci facilita molto. La difficoltà consiste nel fatto che siamo preoccupati l’uno per l’altra:  entrambi siamo in scena e siamo molto coinvolti.

La prima volta che ho cantata diretta da Alessandro, per un mese non ho dormito perché ero preoccupata  per lui. Molto più spaventata all’idea che qualcosa potesse andare storto a lui che a me. Ma a parte quest’aspetto, lavorare insieme è un connubio ideale, una situazione perfetta per affrontare una prima ed una produzione.

 

La prima volta che l’ascoltai era il 1994. Giovanissima affrontò alla Sala Tripcovic un lavoro complesso come ‘La Dannazione di Faust’. Immediatamente fu magia: una voce dalla gigantesca personalità, un colore che strega, una tecnica  sicura, ma soprattutto un carisma che appannò tutti gli altri interpreti, peraltro di valore.  Cosa ricorda dei suoi esordi triestini, a pochi mesi dal debutto a Spoleto?  

Quello fu il mio esordio da solista. La voce dal cielo è una parte piccola, che canta solo nel finale dell’opera. Per inciso, sono stata felicissima, ai primi di febbraio di quest’anno, di  debuttare, al San Carlo di Napoli, la parte di Marguerite, ruolo che adoro, che trovo di una poesia immensa. Tornando ai miei esordi triestini, sicuramente fu una grande emozione. Cantare nella propria città , anche se in un ruolo microscopico, oltretutto a pochi mesi dal debutto assoluto a Spoleto, è stato molto coinvolgente ed emozionante. Oltretutto cantare nella città dove si vive è doppiamente impegnativo perché si conoscono le persone,  l’ambiente. E’ allo stesso tempo più semplice e più difficile.

 

Quel teatro era stato regalato alla città da de Banfield. Conobbe il Maestro di cui ricorre quest’anno il centenario dalla nascita?

Ho conosciuto il Maestro de Banfield. Non solo in occasione di  questa produzione al Verdi, ma anche perché era stato in giuria al Concorso Iris Adami Corradetti, che vinsi, nonostante in finale avessi cantato con trentanove di  febbre. So che  quest’anno ricorrono i cento anni dalla nascita.  Un grande dispiacere che sia stata demolita la Sala Tripcovich da lui sponsorizzata, costruita per sopperire alla chiusura del Verdi  a causa dei lavori di ristrutturazione. Ho saputo, però, che il Maestro verrà ricordato con un busto, che verrà posizionato proprio dove sorgeva questa Sala.

 

Ancora a Trieste fu protagonista ineguagliabile di uno straordinario ‘Tancredi’. Spettacolo bellissimo, colleghi di straordinaria bravura, ma il teatro era stregato dall’intensità della sua interpretazione. Per quel che ci riguarda ricordiamo di aver pianto la prima volta che l'abbiamo vista, ma di esserci lasciati andare ancor di più nella successiva. Una simbiosi incredibile fra interprete e personaggio, che ha confermato in tutte le sue prove rossiniane. Chi è per lei Rossini e qual è, secondo lei, la cifra della sua eccezionale lettura di questo compositore?

Anch’io ricordo con emozione quello spettacolo. Fu il connubio di un’opera che adoro e che mi ha dato tutto, perché i miei esordi sono legati al ‘Tancredi’ al Rossini Opera Festival nel  1999, con l’emozione di cantare quel ruolo a me così caro, proprio nella mia città. Era come se ci avessi messo il doppio del cuore: l’amore per la parte e l’amore per la città, uniti insieme per regalare a Trieste la mia interpretazione del mio ruolo preferito.

Rossini è una grande scuola, è stato un compositore straordinario, spesso sottovalutato perché si conoscono di più le opere semiserie e quelle buffe, ma il repertorio serio viene spesso dimenticato. C’è stato un momento in cui ‘Semiramide’, ‘Tancredi’, ‘Donna del Lago’  sono riapparse nei cartelloni, ma adesso sembrano di nuovo un po’ dimenticate.

Per me Rossini è stato l’inizio di tutto. Ho imparato, assieme ad Alessandro, le agilità rossiniane, studiandole tecnicamente e questo mi ha permesso di affrontare anche i ruoli successivi, come quelli verdiani, in maniera estremamente agevole, perché , in poche parole , essendo la partitura rossiniana molto complessa, veloce, ricca di variazioni ed agilità,  richiede scelte tecniche rapide, decisioni veloci. Dopo aver acquisito questo metodo, passare ad un repertorio successivo, come quello verdiano, diventa decisamente più facile, perché si ha la consapevolezza di avere il tempo per pensare, ma anche la capacità di reagire immediatamente ad un eventuale errore tecnico, ad un passaggio difficile, ad un imprevisto, che può sempre capitare in scena.

Attraverso i recitativi rossiniani ho scoperto l’importanza dello scolpire la parola .

Rossini mi ha preparato ad affrontare tutti i repertori, perchè Rossini  non è solo virtuosismo, ma è anche contenuto. Questo compositore  mi ha insegnato ad andare oltre  lo spartito, oltre la partitura, soprattutto oltre le parole, per guardare alla storia, ai personaggi, al loro carattere; mi ha fatto capire quanto sia determinante saper ascoltare anche gli altri cantanti e riuscire a rispondere di conseguenza.

Conoscere anche la parte degli altri  permette di costruire con maggior realismo il proprio personaggio, consente di costruire un dialogo, sia musicale che scenico, credibile, coerente.

Va detto che il recitativo di Rossini è stato utilissimo anche in tutti quei ruoli di altri compositori, nei quali il recitativo non è presente: mi ha aiutato a stare dentro al personaggio, a dare ad ogni parola il corretto significato, anche diversificandolo quando ci sono delle ripetizioni, perché una ripetizione di un’aria o di un duetto non è mai una semplice ripetizione, in quanto si utilizzano le variazioni per rafforzare quello che già si è affermato nella prima parte del brano. C’è bisogno di non lasciare mai nulla al caso, in nessun repertorio.

 

Nel 2009, sempre al Verdi, fu la protagonista di ‘Italiana in Algeri’, accanto ad un cast di fuoriclasse. La regia e le scene erano di Pier Luigi Pizzi, che l’ha diretta molte volte, soprattutto al ROF. Ha qualche ricordo particolare legato al Maestro veneziano?

Devo dire che Pier Luigi Pizzi è stato uno dei miei maestri dal punto di vista scenico, perché sotto la sua direzione ho interpretato il mio primo Tancredi. Pizzi è un grande esteta, un profondo conoscitore della ‘mise en scene’, sia dal punto di vista musicale che scenico. È molto importante che un regista conosca anche lo stile musicale che sta affrontando, il messaggio che l’opera vuole consegnare al pubblico ed in questo Pier Luigi Pizzi è un grandissimo Maestro con il quale ho lavorato in moltissime produzioni.

Impossibile citarle tutte, ma sicuramente mi vengono in mente immediatamente ‘Bajazet’ di Vivaldi, il ‘Rinaldo’ di Handel,  ‘Europa Riconosciuta’, con la regia di Ronconi e le scene di Pizzi, con cui  venne riaperta La Scala.

Pizzi è un grandissimo intellettuale, un profondo conoscitore dell’opera e del teatro; mi porto dentro, con grande orgoglio, le magnifiche esperienze che ho potuto maturare , da giovane, lavorando con un Maestro dal quale ho cercato di assorbire tutto quello che potevo, come una spugna, andando ad assistere anche alle prove degli altri, per poter imparare quanto più possibile, carpire ogni indicazione, tutte le sfumature.

 

Essere  una presenza quasi costante a Pesaro l’ha incoronata il massimo mezzosoprano rossiniano attualmente in scena. A quale personaggio di questo compositore si sente più legata? Quale invece ascolta sempre con entusiasmo, come spettatrice?

Credo di aver già risposto, inconsciamente a questa domanda: sicuramente Tancredi è stato un ruolo determinante per la mia carriera.

Era il 1999 ed ero emozionatissima. Quando dovevo  entrare in scena pensavo che quel ruolo, prima di me, era stato interpretato dalla grandissima Lucia Valentini Terrani, riflettevo che io ero una giovane cantante venuta dal nulla e che quel ruolo era una grandissima responsabilità per cui ero sinceramente combattuta se prendere la porta per il entrare sul palcoscenico o se non fosse meglio imboccare l’uscita dal teatro. Fortunatamente per me optai per l’entrata in scena e da lì è partito tutto. Tancredi è il ruolo cui mi sento più legata, mentre quella che ascolto sempre con grande entusiasmo è ‘Cenerentola’, un’opera straordinaria, meravigliosa, che mi entusiasma sia dal vivo che in registrazione: un capolavoro entusiasmante, davvero entusiasmante.

 

Spesso si ascoltano grandi discussioni fra i sostenitori delle regie tradizionali  e quelli che aprono volentieri alle visioni più moderne. Come si pone all’interno di questo  dibattito?

Questa domanda mi piace molto. Diciamo che son contraria ad una visione registica eccessivamente moderna ed  essenziale. L’opera va rispettata per quello che è: il  pubblico viene a teatro per sognare, per avere una catarsi vedendo qualcosa che non sta vivendo in quel momento, ma che lo fa sognare, ‘esistere’ in una dimensione che non potrà mai attraversare. Per me una messa in scena del genere oggi risulterebbe molto moderna, visto che siamo abituati a questi allestimenti estremamente essenziali, che snaturano il vero messaggio che dovrebbe essere trasmesso, sia dal libretto che dal compositore.

A me è successo di partecipare a spettacoli riusciti con regie moderne.

Penso per esempio  alla ’Semiramide’ con Hugo de Ana, che debuttai a Ginevra nel 1998.

Ero Arsace e la storia non si svolgeva a Babilonia, ma nell’antico Giappone. La messa in scena era estremamente spettacolare, ma anche molto fedele al messaggio originale .  Lo spostamento all’epoca dei samurai non aveva intaccato il significato del lavoro e questa è la peculiarità che dovrebbero seguire tutti i registi che vogliono regie eccessivamente moderne, che si ostinano ad inserire nei loro spettacoli frammenti di film cui loro sono legati, ma che non hanno nulla a che fare con quell’opera.

Penso alle volte in cui, proprio in Semiramide mi ritrovo a cantare ‘Il serto augusto io ti cingo  di Nino’ ed in mano non avevo il serto ma tutt’altro. Secondo me il pubblico ha bisogno di vedere quello  di cui si canta, ha bisogno di coerenza, anche nella spettacolarità.

Un piccolo aneddoto al riguardo. Qualche anno fa ho interpretato ‘La Gioconda’, nella parte di Laura Adorno, a Berlino, in una mise en scene dell’epoca di Ponchielli. Le scene erano  realizzate in carta dipinta, sostenute da listelli di legno e spostate a mano. Il teatro era strapieno. Il pubblico era entusiasta. Ho parlato con alcuni degli spettatori e mi hanno detto che ogni volta che c’era quell’allestimento andavano a vederlo perché sapevano di assistere ad uno spettacolo come andava fatto. La  cosa per me più sorprendente e che mi ha dato gioia è che all’apertura del sipario il pubblico ha applaudito alla scena. Le platee tedesche sono avvezze a regie decisamente ultramoderne e questo apprezzamento ad un allestimento tradizionale, storico, è oltremodo importante. Il pubblico ha bisogno di sognar, non di vedere sul palcoscenico la realtà dei telegiornali.

 

A quale  dei suoi spettacoli  è più legata? Ce n’è qualcuno a cui ,col senno di poi, avrebbe preferito non partecipare?

Tralascio ‘Tancredi’ di Pesaro perché credo che si sia capito che è il mio spettacolo preferito (la frase è accompagnata da una risata divertita e coinvolgente, che bene descrive la disponibilità e l’ironia dell’artista triestina). Francamente  non mi sono pentita di nessuna delle produzioni cui ho partecipato, nel bene e nel male, neanche di quelle pesantemente contestate.

Ho un grande ricordo del ‘Sigismondo’ di Pesaro che ha vinto numerosi riconoscimenti della critica.

Si trattò di uno spettacolo complesso: Sigismondo è un re, pazzo, rinchiuso in un ospedale psichiatrico. All’epoca Michieletto l’ha ambientato in un manicomio dell’Ottocento. Questo è uno di quei casi di cui parlavo prima: c’è uno spostamento temporale, ma nel pieno rispetto della narrazione, sia musicale che drammaturgica e lo spettacolo ha avuto la sua efficacia.

Interpretare questo re, con tutti i disturbi mentali innescati dalla situazione in cui si è trovato è stato appassionante, veramente avvincente.

Ci sono tanti spettacoli che mi vengono in mente.

Per esempio le aperture della Scala con il Maestro Muti: la prima volta, con ‘Iphigenie en Aulide’, con la regia di Yannis Kokkos e la seconda con ‘Europa  Riconosciuta’ con l’accoppiata Ronconi - Pizzi.

Ho un grande ricordo di un altro spettacolo cantato qualche anno fa alla Scala: ‘Les Troyens’ di Berlioz con la regia di David Mcvicar. Uno spettacolo complesso, che durava cinque ore, ma meraviglioso, coinvolgente, che mi ha dato veramente tanto. Interpretavo Didon, un ruolo potente dal punto di vista musicale e scenico, che mi ha entusiasmato interpretare.

In realtà, come dicevo, ci sono moltissime produzioni che mi hanno dato tanto tanto, tanto, mi sono costate tantissima fatica, mi hanno insegnato molto e non dimentico nessuno degli spettacoli cui ho partecipato, perché ognuno di loro è stato una importante esperienza formativa.

 

Lei nella vita quotidiana è una signora di innegabile bellezza e di grande fascino, ma in scena la vediamo spesso trasformata in un uomo e la sua capacità di essere  credibile come nerboruto soldato, lascia increduli. Come fa a calarsi con tanta bravura nei panni di un uomo?

(ndr. risponde sghignazzando) In effetti trasformarsi in un nerboruto soldato è stato difficoltoso, soprattutto all’inizio, perché non avendo io una muscolatura maschile, ho dovuto imparare a camminare, duellare ed a comportarmi, anche dal punto di vista musicale, da uomo. L’artefice questo modo di interpretare l’uomo in scena è stata Leda Lojodice. All’epoca era l’assistente di Hugo de Ana e per insegnarmi a muovermi da uomo mi aveva messo i pesi alle caviglie e mi ha spiegato: ‘tu come uomo devi sentire il peso del terreno, non puoi svolazzare in scena. Devi avere i piedi per terra, essere un guerriero, sempre pronto al combattimento, privo di cedimenti ed instabilità.’

E’ stato  complesso scenicamente, ma anche musicalmente perché non potevo permettermi di cantare un ruolo maschile in modo femminile. Ci sono dettagli da rispettare e quindi è stato avvincente, interessante, coinvolgente. Adesso mi  viene quasi automatico, ma all’inizio è stato molto difficile. Soprattutto perchè invidiavo le mie colleghe che avevano vestiti da donna e le ciglia finte.

Ma i ruoli en travesti mi hanno dato tanto: è stata una esperienza formativa molto articolata. Con mio marito Alessandro siamo dovuti andare ad imparare a tirare di scherma, perché in scena ci sono spesso duelli, con spade pesantissime, pensate  per un vero uomo.

Ho dovuto farmi anche un po’ di muscoli per tirar su queste armi, che non hanno la lama, ma sono autentiche.

Per capire quanto  tutto questo sia faticoso,  alla fine di alcune produzioni  avevo perso più di sei chili per lo sforzo. Essere  un uomo  in scena, per una donna è molto faticoso.

 

Nella sua carriera ha cantato accanto a grandi interpreti, dalla Anderson  alla Devia, dalla Dalla Benetta alla Netrebko. Ci sono dei colleghi con cui  si è trovata  particolarmente in sintonia?

Tutte le colleghe qui citate sono per me delle amiche, dalla Anderson alla Devia, dalla Dalla Benetta alla Netrebko. Ma aggiungerei, fra le altre, anche Patrizia Ciofi e Darina Dakova, che è stata la mia prima Amenaide  nel pluriricordato ‘Tancredi’ di Pesaro e con la quale abbiamo fatto tanti debutti, in particolare nel repertorio rossiniano, con il Maestro Gelmetti. Con la Dakova, come anche con Patrizia Ciofi, c’era grandissima sintonia. Un’altra collega con cui c’è un’ottima sintonia è Joyce Di Donato.

Ma legati ad ognuna di loro ci sono dei bei ricordi. Con la Anderson ho fatto ‘Norma’, era molto carina  e gentile con me e spesso Alessandro ed io la invitavamo a cena a casa nostra, perché vivevamo a Parma.

Con Mariella Devia ho cantato per la prima volta in occasione di ‘La Donna del Lago’ a Pesaro. Poter cantare con lei per me era un sogno, ed ero timorosissima di un personaggio come lei, di una grandissima cantante, di un’ interprete così importante. Invece si è rivelata una persona disponibilissima, siamo diventate amiche ed ancora adesso ci sentiamo. Con Silvia Dalla Benetta ci sentiamo spessissimo. Con la Netrebko è un po’ che non canto, ma io seguo lei, lei segue me e siamo molto legate.

Con ognuna di loro c’è un feeling diverso, una storia differente e questo fa sì che anche il mio modo di interpretare i personaggi  sia differente con ciascuna di loro, in maniera da essere più in sintonia anche scenicamente.

Ognuna di loro è stata è stata una cara amica ed una grande collega.

 

Dopo Rossini nella sua carriera sono comparsi i grandi ruoli donizettiani e belliniani. A quale si sente più legata?

Sicuramente io sono molto affezionata a ‘La Favorite’, opera straordinaria che io adoro. Altra opera meravigliosa è ‘Capuleti e Montecchi’. Quello di Romeo è un ruolo molto difficile, perché canta nella stessa tessitura di Giulietta, che è soprano. Quindi si tratta di una parte molto complicata dal punto di vista vocale.

Sono ruoli che ho interpretato con grande soddisfazione, ma anche con grande fatica dal punto di vista tecnico. A livello interpretativo,  sia il finale di ‘La Favorite’ che quello di ‘Capuleti e Montecchi’ sono molto emozionanti, anche per me in scena. Sono ruoli che amo molto anche perchè presentano una vasta gamma di sentimenti umani da trasmettere e per me è una sfida stimolante riuscire a tradurre quello che cè scritto nello spartito e portarlo al cuore di chi ascolta.

 

 

Da molti anni  frequenta con bravura ed oculatezza  il  repertorio verdiano: Messa da Requiem, Aida, Luisa Miller, Falstaff, Ballo in Maschera, Don Carlo. Tutte grandi interpretazioni, nelle quali il virtuosismo tecnico non ha mai il sopravvento sull’interpretazione, che è sempre raffinata, credibile, attenta, di grande intensità. In questo momento c’è un ruolo verdiano con il quale si sente in particolare sintonia?

Mi è piaciuto molto studiare, interpretare, scavare  il carattere dei personaggi di  queste partiture verdiane, sia dal punto di vista vocale che scenico.

Amo moltissimo Amneris per la forza interpretativa di cui necessita. La scena del Giudizio è lunga, complessa musicalmente, impegnativa dal punto di vista interpretativo, ma mi ha sempre affasciato.

Adoro Eboli, un ruolo complesso anche dal punto di vista psicologico.

Questi personaggi sono molto diversi fra loro.

Pensiamo a Mrs Quickly : ruolo divertentissimo,  che mi è piaciuto interpretare nelle varie visioni registiche, non ultima quella alla Scala, sotto la guida di Carsen, ambientata negli Anni Cinquanta, in una grande cucina dominata dalla confusione.

In Verdi come in Rossini la gamma delle sensazioni è vastissima: si va dal comico di Quickly  al drammatico di Amneris.

Spero di portare presto in scena Azucena: doveva succedere a Parigi nel 2021. Stavamo facendo le prove, si avvicinava il debutto, ma il teatro è  stato chiuso per il Covid e la produzione sospesa.

Ognuno di questi personaggi mi ha dato un’interiorità diversa, una sfida differente; li amo in egual modo, mi sento in sintonia con ciascuno.

Il fatto è che ogni volta che mi accingo a studiare un ruolo, entro completamente nella parte, in sintonia con il ruolo e questo mi permette di sentire a fondo il carattere del personaggio.

 

Quale ruolo  verdiano le piacerebbe ipoteticamente portare in scena? Libertà assoluta  nella risposta: potrebbe essere soprano di agilità o basso profondo, solo per sapere i gusti della Signora Barcellona spettatrice.

Ho inavvertitamente risposto prima: quello di Azucena.

Che è nei programmi,  ma confesso che sono impaziente.

Devo anche dire che ho avuto una grande fortuna: tutti i ruoli che avevo nel cassetto dei sogni, alla fine mi sono stati proposti ed ho potuto debuttarli: da Dalila ad Amneris, Eboli, Ulrica , Marguerite, Didon.

Sono tantissimi, ma la verità è che adesso non vedo l’ora di diventare Azucena.

 

La sua carriera è costellata di premi. Fra gli altri uno intitolato ad un grande tenore triestino poco ricordato: Carlo Cossutta. Ha qualche ricordo legato al Maestro di Santa Croce?

Carlo Cossutta l’ho conosciuto perchè era un grandissimo amico di Alessandro, che andava a casa sua per preparare le arie, le opere.

Carlo era una persona straordinaria, venuto a mancare troppo presto.

Mi ricordo che l’abbiamo incontrato ad una prima al Verdi, ed un mese dopo mi hanno detto che non c’era più. Non potevo crederci. Pensavo ad una delle tante fake news. Invece era proprio così.

Carlo era un grandissimo tenore, un fantastico interprete. Ho debuttato con lui il  duetto di Sansone e Dalila al Circolo delle Generali. Posso dire che Carlo Cossutta è stato il mio primo Sansone: una gigantesca emozione! Cossutta mi ha sempre sostenuta, incoraggiata ,  ha avuto in ogni occasione una parola meravigliosa per me, per Alessandro. Per noi era un grandissimo amico, che mi manca e ci manca moltissimo.

 

Lei ha cantato in tutto il mondo. Ci sono differenze fra i pubblici dei vari paesi?

Ci sono sicuramente differenze fra i pubblici dei vari paesi, perché ci sono formazioni culturali differenti. In alcune realtà prevale il contenuto dell’opera piuttosto che il virtuosismo. In certi paesi, più che l’acuto ad effetto, c’è bisogno di sentimenti nel contenuto. In altri invece trionfa la spettacolarità del canto. Spetta a noi interpreti capire di cosa il pubblico ha bisogno ed adattarci ai suoi bisogni, capendone la psicologia, la cultura. È molto avvincente porre il messaggio che si vuole dare scegliendo una strategia differente, rimanendo fedeli allo stile, ma trovando un modo diverso di cantare, di stare in scena. Per esempio portare in scena un personaggio di un’opera barocca nel mondo anglosassone ed americano è molto diverso dal mondo in cui lo si fa in Italia: c’è un movimento differente, più sciolto, quasi da musical, decisamente differente dall’atteggiamento controllato e rigido che caratterizza i nostri teatri.

 

Ci sono state occasioni in cui si è sentita una portabandiera dell’Italia, magari incontrando rappresentanti delle tante comunità di italiani all’estero?

Assolutamente si: mi sono sentita tante volte una portabandiera dell’Italia, soprattutto interpretando i grandi personaggi dell’opera italiana, che tanto sono apprezzati all’estero. Quando giro il mondo incontro spesso  comunità italiane, come in Australia, dove ho conosciuto, a Sidney e Melburne, tantissimi emigranti italiani. Mi sono sentita come un pezzo d’Italia che andava da loro e questo è stato molto apprezzato.

Già portare l’opera italiana nel mondo e vedere che l’Italia non viene apprezzata solo per la cucina e la cultura in generale, ma anche per la sua musica lirica, è una grandissima soddisfazione.

 

Oltre ad essere una  assoluta primadonna del palcoscenico, lei è anche una stimatissima insegnante, protagonista di numerose masterclass anche a Trieste.  Come si trova in questo ruolo e cosa ritiene importante trasmettere ai suoi allievi?

Più che un’insegnante mi sento una consigliera, che porta le sue esperienze. Faccio sempre le master class con Alessandro. Lui si occupa più  degli aspetti tecnici, io di quelli interpretativi. Questo è il  connubio in questa nuova componente della nostra vita. Agli allievi vogliamo trasmettere la nostra esperienza, l’importanza del rispetto nei confronti dei vari stili, dei vari compositori, del messaggio del libretto e dell’opera.

Cerchiamo di dare al pubblico emozioni, che non siano solo epidermiche ma vadano nell’anima. Desideriamo trasmettere la cura nell’interpretazione, nel dettaglio, nella parola, che come dicevo prima va scolpita. Bisogna chiedersi il perché di ogni nota, di ogni tono. Non limitarsi a solfeggiare e cantare come se lo spartito fosse l’elenco del telefono. Bisogna essere come Gassmann che nelle sue piccole perle interpretava , come fossero poesie, gli ingredienti delle ricette o le componenti delle etichette degli abiti. Noi dobbiamo dare il peso corretto ad ogni parola, associarla alla musica, per dare emozioni al pubblico.

Un'altra cosa su cui insistiamo molto è la serietà nell’affrontare le produzioni. Bisogna arrivare preparati. Non si può studiare l’opera mentre la si prova. L’opera deve essere studiata, assimilata, preparata prima di andare alla  prima prova di regia. Bisogna avere già un’ idea del personaggio  che si vorrà proporre dal punto  di vista musicale e scenico. Necessario conoscere tutta l’opera, anche dal punto di vista culturale.

Necessario documentarsi il più possibile per poter offrire qualcosa di valido al pubblico.

Più preparati si è, più facile è il lavoro con il regista ed il direttore d’orchestra.

Assolutamente necessario, ovviamente, conoscere almeno il proprio ruolo perfettamente a  memoria.

 

Qual è il suo rapporto con  recensioni: le legge o, come faceva la Simionato, le evita?

Il rapporto con le recensioni è ottimo. Alessandro  fa da filtro, sempre . A lui chiedo di  non dirmi niente delle recensioni  che dicono  cose brutte. Ma devo dire che ci  sono delle recensioni ‘negative’ nelle quali viene fatta una  critica mirata su un aspetto tecnico, su una peculiarità eseguita in modo  imperfetto, scritte da persone competenti, che sanno quello che stano scrivendo, leggendo le qual non posso che dire: ‘hanno ragione. Devo migliorare questo  aspetto’.

Quelle che non amo sono le recensioni  di carattere polemico, cattivo. Non mi piace quando nello scritto viene messa la negatività gratuitamente, quasi solo per scrivere qualcosa.

Non so per quale ragione, ma noi cantanti  abbiamo delle persone che ci odiano, che scaricano il loro astio in scritti  gratuitamente negativi, spesso esagerati, incredibili.

Tutto questo, francamente, non mi fa male, ma non riesco a capire  perché accada. Se un interprete non ti è piaciuto, è un tuo diritto dirlo, ma non infierire esageratamente. Ho visto colleghi offrire interpretazioni magnifiche ed ho letto recensioni che li stroncavano immotivatamente, non riesco a spiegarmi il perchè. Credo che l’obiettività sia una grande cosa, un senso di civiltà.

Ho letto critiche negative scritte in modo elegante e questo non può che essere apprezzato

 

Cosa le piacerebbe vedere scritto di lei e cosa le dà più fastidio veder pubblicato?

Questa è una domanda complessa.

Quando non ci sarò più mi piacerebbe fosse scritto che ho lasciato un piccolo seme per le generazioni future, che di tutto quello che ho fatto in vita mia qualcosa è rimasto e che da quel qualcosa qualcuno abbia potuto trarre giovamento.

Non ci sono cose che mi da’  fastidio vengano pubblicate. Vale il discorso fatto prima sulle cattiverie. In realtà a me è successo pochissime volte di leggere cose pesanti. Ma io mi auguro di non aver mai fatto del male a nessuno e quindi sapere che qualcuno mi odia per il semplice fatto che salgo su un palcoscenico e cerco di dare un po’ di positività a chi ascolta, non mi sembra accettabile. Naturalmente lo stesso discorso vale per tutti i colleghi che patiscono questa situazione: noi cerchiamo di esprimere la nostra arte per il pubblico e non vedo perché qualcuno ci debba prendere di mira per questo.

 

Quali sono i prossimi impegni?

Adesso c’è ‘Orfeo ed Euridice’ a Trieste.

Poi devo rimettere in voce ed in gola Giovanna Seymour dell’’Anna Bolena’, che interpreterò al Colon di Buenos Aires. Sarà il mio debutto in quel magnifico teatro dove il nostro amato Carlo Cassutta ha cantato tantissimo. Poi c’è il debutto in ‘Edoardo e Cristina’, come Edoardo a Pesaro. Questo  centone, del quale è appena uscita l’edizione critica, non è mai stato eseguito a Pesaro: una prima di cui sono molto  molto felice e molto emozionata. Poi sarò a Parigi con la ‘Cendrillon’ e pian piano, fra spettacoli e prove,   si arriva a fine anno.

 

Infine, ringraziando per la disponibilità e la cortesia, quali i suoi sogni?

Sono io che ringrazio lei per la sua intervista e per l’affetto nei miei confronti.

I miei sogni riguardano in generale il mondo in cui stiamo vivendo oggi. Il mondo che mi piacerebbe potesse esserci in futuro. In questo tempo di immagine mi piacerebbe potesse essere ripreso in mano anche il contenuto. Non solo l’esteriorità delle cose, ma anche quello che c’è all’interno.

Questo anche nell’interpretazione, nell’arte, nel canto lirico, nell’opera, nella musica. Non solo virtuosismo, ma anche contenuto

C’è bisogno di emozionarsi. Noi interpreti, di qualunque forma artistica, dobbiamo dare l’anima a chi accoglie la nostra arte.

Al mondo auguro di ritornare al contenuto e non all’esteriorità.

Noi artisti non dobbiamo essere solo esecutori ma tornare ad essere interpreti di quello che facciamo.

 

 

Gianluca Macovez

18 aprile 2023

 

 

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

Newsletter

Iscriviti alla nostra newsletter per scoprire gli sconti sugli spettacoli teatrali riservati ai nostri lettori