“Noi fondamentalmente siamo artigiani dello spettacolo. Di solito gli artigiani lavorano con le mani, noi lavoriamo con la voce. La cosa difficile è annullare completamente se stessi per rendere giustizia al lavoro che è già stato svolto, visto che dobbiamo tradurre nella nostra lingua la caratterizzazione, l’interpretazione di un personaggio già realizzata da un altro attore in un’altra lingua. Pertanto il livello della qualità del doppiaggio dev’essere al pari del film o della serie in originale. Non deve assolutamente perdere di qualità in questa operazione ma anzi guadagnarne, cosicché il pubblico che ascolta neppure si accorga del cambio di voce. Il nostro lavoro è una magia, e come nei trucchi compiuti dai prestigiatori, funziona quando il pubblico non si accorge che la magia c’è”.
A dare questa interessantissima lettura del mestiere del doppiatore è Davide Perino. Nato a Roma nel 1981, figlio e nipote d’arte, attore e doppiatore fin dalla più tenera età, ha prestato la sua voce a grandi professionisti del cinema, dei cartoni animati e della tv. Giusto per fare qualche esempio, Davide è la voce di Chicco, la tazzina da tè nel lungometraggio Disney La bella e la Bestia; di Elijah Wood nel Signore degli anelli; di Eddie Redmayne in Animali fantastici e dove trovarli e La teoria del tutto, per il quale Redmayne vinse il premio Oscar come miglior attore.
Persona con cui ci si trova subito a proprio agio, simpatico, diretto e al contempo profondo, Davide Perino ha una ricchissima carriera alle spalle, nella recitazione ma soprattutto nel doppiaggio.
Nulla di eccezionale, direte voi. E sarebbe di certo così, se non fosse che il nostro è affetto da dislessia.
La dislessia rientra nei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), ed è un disturbo specifico della lettura, che si palesa con difficoltà nella decodifica del testo. Del tutto indipendente dall’intelligenza di chi ne è colpito, si può manifestare in differenti modalità come la comprensione di ciò che viene letto, la lettura lenta e scorretta, la pronuncia della lettura ad alta voce, lo scambio di vocali o consonanti simili fra loro.
Dei disturbi sull’apprendimento in generale e della dislessia in particolare, la società ha cominciato a prendere coscienza negli ultimi anni. Ora esistono vari percorsi valutativi per determinare se un piccolino è o meno affetto da dislessia, così come strumenti, strategie e metodologie per supportarlo nella crescita e nella scuola. Ma l’infanzia di Davide Perino non era arricchita da tali e tante conoscenze. Il piccolo doppiatore riteneva dunque che fosse difficile leggere in generale, non solo per lui. E che le parole che “ballavano” sulla sua pagina, facessero così anche nelle pagine del copione degli altri.
Nei tuoi anni di didattica, ancora non si parlava di dislessia. Come te la sei cavata tra i banchi di scuola?
Alle elementari e alle medie tutto sommato è andata bene. L’inferno vero è cominciato al liceo quando le cose si facevano più serie. Io ho sempre preso ripetizioni fin da piccolo, avevo davvero tante difficoltà. Anche perché lavoravo, ho iniziato a due anni e mezzo. Non riuscivo sempre a fare i compiti e alcuni professori erano comprensivi ma altri no. Fino alle medie più o meno me la sono cavata, ma al liceo è diventato l’inferno. Persino alcuni insegnanti che mi facevano ripetizioni diedero forfait perché nessuno immaginava davvero quale fosse il problema. Tra l’altro all’epoca la dislessia era vista quasi come una malattia mentale, come qualcosa di gravissimo e irreparabile.
Raccontaci della tua infanzia nel mondo dello spettacolo...
Ripensando ai primissimi anni in cui ho cominciato a lavorare, mi rendo conto di aver cominciato fin da subito a corredare le pagine del copione di freccette, sottolineature, piccole marcature che evidenziavano una parola piuttosto che un’altra. Segni grafici in sostanza, che mi aiutavano a sostenere lo sforzo della lettura e sono stati la mia salvezza. Crescendo ho capito che questo era ciò che mi aiutava, che mi permetteva di “fermare” le parole che io non riuscivo a capire perché si muovessero. Da piccino credevo che per tutti fosse difficile leggere. Poi ho cominciato a vedere che i miei colleghi non si fermavano, non si inceppavano come facevo io e credevo che loro erano semplicemente maggiormente concentrati e io più distratto. In ogni caso quei codici grafici sul copione mi soccorrevano e sono poi diventati il mio strumento personale per riuscire ad andare avanti e a lavorare.
Come hai capito che il tuo problema non era scarsa concentrazione ma un disturbo specifico, ovvero la dislessia?
Me ne sono accorto nell’età adulta. In realtà il sospetto lo avevo anche se nessuno mai mi aveva detto niente e mai ho tentato di andare da uno specialista anche perché io il mio metodo personale per andare avanti lo avevo trovato.
Quindi con le tue sole risorse, hai strutturato una strategia che ti permettesse di fare il lavoro che ami.
Esatto. Quando ho incontrato la mia fidanzata, che non a caso è una logopedista, lei ha ascoltato tutta la mia storia e mi ha detto che avevo trovato uno “strumento di compensazione”. E’ stata lei a dare conferma a tutti i miei sospetti. Il fatto che io non riesca a leggere direttamente, non riesca a comprendere il significato del testo alla prima lettura, finalmente ha avuto un nome. Quindi ho capito che tutti i segni che devo fare per forza sulla carta quando leggo, sono indispensabili per la riuscita della mia performance.
Ho sempre visto i miei colleghi andare spediti, sicuri della loro lettura, mentre io sono sempre sull’orlo dell’inciampo. Il fatto però che il copione sia sempre scritto in una certa modalità (è regolamentato dal sindacato) mi ha aiutato notevolmente. Mi sono sempre trovato meglio col copione che con i libri di scuola, i quali non solo sono scritti in maniera più fitta ma cambiano carattere, interlinea, impaginazione l’uno dall’altro. Dai libri di testo riuscivo a comprendere poco o nulla, tanto che mi aiutavo con i Bignami. Ora un logopedista lo chiamerebbe “la riduzione del testo”. Per tutti quelli della mia generazione, era semplicemente il Bignami.
Senza l’aiuto di nessuno, hai dunque trovato il modo di cavartela e avere successo, nel senso di poter svolgere il lavoro che ami e con competenza e soddisfazione.
Io non ho iniziato col doppiaggio ma con il cinema. Avevo quindi le battute da imparare a memoria. Battute che ovviamente non riuscivo a leggere. Se non fosse stato per mia nonna che con una forza e una tenacia fuori dal comune mi faceva ripetere fino allo sfinimento le battute, forse ora non sarei qui. E io memorizzavo tutto, anche le battute degli altri. Pensa che i colleghi le chiedevano a me quando le dimenticavano, perché io ero l’unico che sapeva tutto il copione a memoria.
Iniziando il doppiaggio, non ho potuto più imparare a memoria. Nel doppiaggio devi solo leggere. Il doppiaggio è interpretazione e lettura. E neppure lettura fissa. La tecnica del doppiaggio fa sì che tu debba guardare lo schermo, leggere il copione sviluppando la memoria a breve termine, studiare gli attacchi e le pause dell’attore sullo schermo, dove respira, dove si ferma, dove lo colpiscono, dove si interrompe… eliminando del tutto te stesso e ciò che faresti tu spontaneamente. Ti sposti dal copione allo schermo in continuazione, con uno sforzo di messa a fuoco non indifferente perché lo schermo sta a sei metri e il copione a 30 centimetri da te. In un minuto, per decine di volte sposti lo sguardo dall’uno all’altro.
Davide Perino insegna in un’accademia per aspiranti attori e doppiatori. Proprio lì si è ritrovato a insegnare a ragazzi con il suo stesso problema. Portando la sua esperienza e le sue strategie, sta dando non solo speranza ma strumenti concreti a persone affette da dislessia, che probabilmente non avrebbero mai creduto di poter fare un mestiere che abbia così tanto a che fare con la lettura.
Cecilia Moreschi
21 aprile 2021