Abbiamo intervistato il regista Giulio Manfredonia artefice della regia di Paura d’amare, in scena al teatro Brancaccino dal 24 ottobre 2019 al 3 novembre 2019. La scia emotiva lasciata dallo spettacolo è stata occasione per evidenziare lo stile registico di Manfredonia orientato, in questa pièce, ad oltrepassare la parola recitata per cogliere e comunicare l’emozione ad essa sottostante.
La drammaturgia nasce come testo teatrale per poi svilupparsi nella versione cinematografica nel 1991. Qual è stato l’elemento che l’ha convinta ad impostare la regia teatrale partendo dal film ?
La perfezione del testo che racconta la difficoltà di vivere la propria vita all’interno di una storia d’amore complessa collocata nella quotidianità. Tale fedeltà alla realtà di tutti i giorni mi è piaciuta. Nel testo è presente anche il doppio registro della commedia e del dramma perchè, proprio come nella vita, il dramma arriva quando meno te lo aspetti. I due protagonisti, pur collocati nella loro epoca storica, sono personaggi ancora attuali perchè raccontano vicende umane universali e senza tempo, come appunto la fatica di vivere.
Entrambi i protagonisti, reduci da esperienze sbagliate reagiscono nel presente con esigenze e velocità diverse. Qual è stato secondo lei il momento esatto in cui avviene l’ incontro?
Significativo è il momento della festa, in cui Jhonny, oltre a ballare con Frankie, non rinuncia a ballare anche con un’altra collega, anche lei sola, dando segnali di altruismo che fino a quel momento erano rimasti latenti. Frankie cerca prevalentemente accudimento dopo esperienze nelle quali è toccato sempre a lei accudire gli altri.
Sembra che entrambi avessero bisogno di fidarsi e di affidarsi...
Riescono a farlo quando iniziano a confidarsi e a parlare per esempio della loro infanzia e delle relazioni sbagliate. Anche la morte della collega anziana è occasione di avvicinamento. L’idea era proprio quella di strappare alla quotidianità dei momenti intimi che non andassero confusi con lo sfondo, anche se questo, con la sua velocità e nevrosi, è parte integrante della vita. È questo il motivo per cui ho trasposto l’originale realtà della periferia newyorkese in quella romana: di fatto gli ambienti periferici sono simili tra loro.
Fa effetto vedere telefoni di casa a rete fissa e addirittura a parete: la genuinità di comunicazione di una volta ha favorito l’incontro tra le due solitudini?
È un incontro tra solitudini, è vero, in cui c’è anche un coro che partecipa a questo travagliato incontro tra persone sole. Mi ha divertito molto dirigere delle controscene costituite da uomini soli che hanno bisogno l’uno dell’altro: è un tema sempre attuale ed anche bello da vedere. Il testo, infatti, pur essendo datato ci riporta ad un discorso universale che riguarda l’essenza delle persone. L’ambientazione anni ottanta ci ha introdotti in una realtà in cui non esistevano i cellulari, dandoci modo di cogliere anche il fascino di quegli anni.
In cosa è consistito il suo intervento sui due attori protagonisti, Massimiliano Vado e Maria Rosaria Russo?
L’obiettivo è stato quello di renderli più spontanei possibile nella recitazione attraverso un’immedesimazione completa con i personaggi, andando oltre la pura tecnica attoriale e contattando direttamente il vissuto dei protagonisti. La difficoltà è stata quella di convicere gli attori a smontare la professione e guardarsi dentro per far emergere la proprie emozioni nella recitazione. All’interno dello spettacolo c’è anche la risata e la battuta diretta che però mi hanno interessato meno perchè non colgono l’umanità dei protagonisti. Per me la cosa più importante è sempre comunicare emozioni: queste si trovano sempre in un luogo separato rispetto al mestiere. Il pubblico infatti si accorge quando ciò che arriva è frutto di un’ impostazione artificiosa o di un reale coinvolgimento.
Simone Marcari
4 novembre 2019