Sabato, 23 Novembre 2024
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La reggente. Intervista a Stefano Incerti

In questi giorni, fino a domenica 15 ottobre,  al Teatro Brancaccino, va in scena lo spettacolo La reggente, prima regia teatrale del cineasta Stefano Incerti. Incerti si misura con un testo di Fortunato Calvino incentrato su un “un personaggio ambivalente: Donna-Boss carnefice e potente, ma anche prigioniera di un sistema perverso che la costringe all’isolamento…uno stato di perdita totale di contatto con la realtà.”

Ecco come risponde il regista alle domande per La Platea...

 

Da dove nasce lo spettacolo, quale l’intuizione che ne ha portato poi alla creazione?

Ho iniziato come aiutoregista di Mario Martone e Toni Servillo, con i quali ho lavorato al cinema e a teatro come aiuto regista di Riccardo II, Rasoi ecc. ma ero convinto che fosse il Cinema il linguaggio che mi apparteneva, quello nel quale avrei potuto esprimermi con maggiore efficacia.

Mi avevano pure offerto in passato di dirigere delle pièces teatrali, ma non avevo trovato mai il testo giusto, quello la cui sola lettura mi emozionasse. Quando Fortunato Calvino mi mandò il copione ero convinto che volesse da me un contributo filmico o un lavoro sulla riduzione cinematografica. Il testo è ipnotico, avvolgente come una spirale sempre più stretta, quasi come un noir; è una parabola discendente causata dalla inopportuna e fatale perdita di controllo. L’amore in questo caso è la rovina della protagonista. E il desiderio di vendetta, l’odio, il potere, come in un moderno Shakespeare generano una triangolazione di psicologie affascinanti e terribili. Tutti temi a me cari. Stavolta non potevo dire di no. Quello che non cambia con il modo in cui provo a raccontare le mie storie al cinema è il desiderio di evocare sensibilità e psicologie: non è la dinamica esteriore del potere quella che mi interessava esplorare, ma l’interiorità dei personaggi. Metterli sotto pressione e osservarne la maniera in cui cercano di combattere per la sopravvivenza. Il testo di Fortunato Calvino, poi, un po’ come mi era successo al cinema con L’uomo di vetro, permette il racconto non solo della degenerazione della gestione malavitosa del potere ma anche l’affascinante cortocircuito esistente tra potere criminale e fragilità psichica della protagonista, che non regge alla pressione improvvisa cui è sottoposta e piano piano impazzisce. La Camorra come pretesto, come mezzo e non come fine.

 

Tinte noir e contorni psicologici. Quali le influenze che ti hanno maggiormente ispirato e hanno arricchito lo spettacolo?

Abbiamo lavorato a lungo sulla costruzione dei personaggi, che attraversano nel breve spazio della durata dello spettacolo gli stati emotivi più opposti. La scena è scarnificata. E anche lo spazio scenico si svela al pubblico piano piano. La luce di Cesare Accetta è tagliente come la fotografia di matrice espressionista di molti noir del periodo anni ’40. Perfino le azioni sono molto essenziali, rigorose, come se i personaggi dovessero diventare pedine di una scacchiera. Il modo in cui si avvicinano o si allontanano corrisponde al fare campo cinematografico, e l’alternarsi di totali e primi piani insieme al ritmo scandisce il testo come un film dal vivo. I tre attori, scelti proprio per la loro provenienza dal cinema, mi hanno consentito di dare un maggiore realismo; portano se stessi, e l’autenticità di quanto mettono in campo vale più di qualsiasi tecnicismo. Senza frenare l’emotività, si svuotano di una parte di vita e la rovesciano attraverso il testo con una forza spesso rabbiosa. I caratteri molto forti degli interpreti hanno talvolta reso anche particolarmente faticosa la lavorazione, ma il risultato, credo, sia sorprendente e la tensione palpabile. Mi piace il teatro di David Mamet, una miscela perfetta, quasi piccoli congegni ad orologeria, di tensione psicologica e dialoghi secchi, cinematografici, con uno svelamento progressivo e spiazzante. Per la protagonista abbiamo rivisto per esempio le enormi interpretazioni della Davis in Che fine ha fatto Baby Jane o Piano Piano, dolce Carlotta, pietre miliari del racconto della fragilità e della schizofrenia.

 

Suggestioni che provengono dal grande schermo, come questi temi vengono ripresi in un contesto teatrale. Quali insomma le complessità e l’equilibrio da trovare per evitare il semplice effetto di traslazione di una fiction su un palcoscenico, ma rendere l’operazione un vero e proprio spettacolo teatrale?

Il teatro è una forma di rappresentazione non mediata. A differenza del cinema, non c’è l’interpolazione data dalla scelta dell’inquadratura e tanto meno la possibilità di riscrittura offerta dal montaggio. Non è possibile utilizzare nessun trucco o espediente narrativo, la qualità e la verità delle interpretazioni sono l’unica cosa che conta. Anche per questo, in un testo così duro, a tratti violento, la verosimiglianza è ancor più necessaria per evitare che lo spettatore pensi che l’attore stia simulando qualcosa; a me piaceva invece che gli interpreti “fossero” i personaggi, “vivendo sulla scena”, con un’identificazione che iniziarono a praticare molti attori americani, portatori con l’Actor’s Studio del Metodo Strasberg e di Stanislavskij. D’altronde La Reggente è una donna spietata e senza scrupoli, inizialmente costretta a ricoprire il buco di potere lasciato dal marito, ma piano piano ancor più assetata di sangue del suo uomo. Come una moderna Lady Macbeth sembra incarnare un modello ormai diffuso di contraddizione solo apparente tra efferatezza e mondo femminile. O di una reincarnazione partenopea del mito di Medea, scaltra e in grado di ordire terribili inganni per una spietata vendetta amorosa. Mi piaceva poi innervare nella tessitura del testo un elemento cristologico (reso anche attraverso la scenografia) quasi sempre presente nei miei film che potesse arricchire il portato di perdono, in questo caso mancato, e senso di colpa. E’ chiaro quindi che il rimando a topoi del teatro classico e moderno già sotteso nel testo supera l’attualità della cronaca e diventa motivo di narrazione di temi senza tempo e universali.

 

Ciò che vuoi innescare con lo spettacolo nel pubblico?

Uno spettacolo funziona se raggiunge con le emozioni che mette in campo il cuore dello spettatore di qualsiasi latitudine. Spero che arrivi la forza delle interpretazioni perché normalmente il teatro mette in scena testi borghesi, rassicuranti, talvolta polverosi e invece volevo che La Reggente fosse una vera e propria “botta nello stomaco”.

 

La tua è un’esperienza che si è formata coltivando l’ambito teatrale e quello cinematografico, viene da chiederti cosa ricavi da questo duplice impiego, cosa dall’attività di regista teatrale e cosa dal mondo del cinema. Soprattutto, far ricerca oggi nel mondo teatrale… opinioni a riguardo?

Il teatro consente al pubblico di assistere ad uno spettacolo sempre diverso, mai uguale: vivo e vibrante. Amo il cinema che fa pensare, quello che affronta in profondità le psicologie dei personaggi, magari attraverso una partitura fatta di pochi dialoghi e molti silenzi. Il teatro invece è il mondo della Parola. Quello che non cambia è il desiderio di evocare sensibilità e psicologie: non è la dinamica esteriore del potere quella che mi interessava esplorare, ma l’interiorità dei personaggi. Per chi come me crede che anche nel cinema non sia importante la ricerca formale, e spesso “facile” di uno stile, che talvolta diventa estetico o estetizzante ma il lavoro fatto con e sugli attori, la direzione e la messa in scena, in quel caso, appunto, il confine è molto sottile e cambiano solo le coordinate: le dinamiche sono pressoché identiche. Non a caso anche per il cinema prima di arrivare sul set, pratico una preparazione analoga al teatro con lunghe letture a tavolino per scavare i personaggi in profondità. Provare a sperimentare e non aggrapparsi a schemi o strutture preesistenti è la sfida più affascinante sia a teatro sia al cinema: provare ogni volta ad affrontare il testo come se fosse un esordio, dimenticando il mestiere, è molto stancante ma anche assai stimolante.

 

Erika Cofone

12 ottobre 2017

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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