Lunedì, 24 Marzo 2025
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Recollection of a falling: quando la danza sfida il tempo

Dal 25 febbraio al 2 marzo 2025, il Teatro Vascello di Roma accoglie Recollection of a Falling, un doppio programma firmato Jacopo Godani e Mauro Astolfi per celebrare i trent’anni di Spellbound Contemporary Ballet. Ma più che una retrospettiva, lo spettacolo è un’indagine sul tempo e sulla memoria fisica: un racconto fatto di corpi in continuo mutamento, di gesti che pensano e si ribellano, di suoni che si intrecciano alla carne e la attraversano. Due coreografie, Forma Mentis e Daughters and Angels, che si rispondono come due poli opposti di una stessa ricerca: da una parte la lucidità della

C’è un respiro trattenuto nel buio del Teatro Vascello, il sipario si apre su un paesaggio umano in continuo mutamento. I danzatori, ognuno avvolto in un proprio abito – tute leggere, pantaloni ampi, top aderenti, maglie scomposte – sembrano portare sulla pelle il loro vissuto, la loro personale relazione con la danza. Nulla è uniforme, eppure tutto è armonico: un’arcipelago di corpi che si muovono come un’unica corrente.  

Al centro della scena, come un punto di gravità attorno a cui tutto ruota, la fisarmonica di Sergey Sadovoy, non solo come mezzo di emissione sonora ma come corpo in scena, un elemento vivo che dialoga con i danzatori. Lo coinvolgono, lo spostano, lo circondano. Lui risponde con note tese, sospiri metallici, ritmi che si piegano e si spezzano per assecondare il respiro della danza. È un rapporto di reciproca dipendenza: il suono modella il movimento, il movimento plasma il suono.  

La coreografia alterna momenti di passi a due, in cui i corpi si cercano, si sfiorano, si sorreggono con una delicatezza che è al tempo stesso sostegno e sfida, e momenti d’insieme, dove l’energia si espande, si moltiplica, trasformando il palco in un flusso continuo di traiettorie intrecciate.  Anche la musica segue questo alternarsi: ora è il respiro vivo della fisarmonica a guidare la scena, ora è la musica registrata a prendere il sopravvento, creando un contrasto netto tra l’organico e il sintetico, tra il battito presente e un suono che sembra provenire da un tempo sospeso. La transizione tra i due mondi sonori è fluida, quasi impercettibile, come se la danza fosse il ponte tra il passato e il futuro, tra il tocco umano e la sua eco artificiale.  

Le luci di Godani tagliano lo spazio come lame, rivelando dettagli minimi – una mano tesa, un piede che sfiora il pavimento, un muscolo in tensione – trasformando la scena in un dialogo tra pieni e vuoti. La danza qui non è solo energia, ma pensiero in azione: ogni gesto è un’idea che prende forma, un filo di luce che si intreccia al respiro della musica.  

Poi il palcoscenico cambia volto. Il fondale è un’immensa distesa nera, un telo pesante che pende dall’alto come un sipario che non si apre mai del tutto. È un confine, una soglia tra visibile e invisibile. E da quell’ombra emergono brandelli di corpi: un piede che scivola fuori, una mano che si allunga, un volto che cerca aria prima di essere inghiottito di nuovo.  Uno a uno, i danzatori vengono risputati fuori, come creature che lottano per esistere. Escono per assoli struggenti, per passi a due che sembrano dialoghi interrotti, per trii che si sfiorano e si respingono come particelle in collisione. Il telo è la memoria che trattiene, che non lascia andare del tutto, che assorbe e restituisce. È il ventre della storia che inghiotte e poi espelle, testimone silenzioso di chi è stato e di chi potrebbe scomparire.  

Le luci di Marco Policastro creano un gioco di rivelazione e scomparsa, trasformando il telo in un’entità viva. A tratti sembra liquido, a tratti una roccia. I corpi emergono e si dissolvono nella sua oscura densità, come frammenti di un passato che cerca di riaffiorare.  E poi, il momento più lacerante. Sul finale, il telo lascia uscire un danzatore nudo, fragile, tremante. Il suo corpo è luce contro il nero, un essere senza difese davanti agli altri vestiti di scuro, che lo osservano in un silenzio carico di significato. È una liberazione o una condanna? Il tempo si sospende mentre il suo sguardo cerca appigli, cerca riconoscimento. Ma l’oscurità lo reclama di nuovo: il telo lo avvolge, lo risucchia, lo riporta dentro. Il buio si chiude su di lui, lasciando l’eco del suo respiro nel silenzio della scena.  

Sul palco, in scena non c'è solo danza, ma un viaggio nel tempo, nelle profondità del corpo e della memoria. Una danza che è un atto di resistenza, che vuole dire "Sono quì e continuerà ad esserci".

 

Alessia Fortuna

27 febbraio 2025

Logoteatroterapia

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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