Recensione dello spettacolo Manon andato in scena al Teatro Costanzi dal 25 al 31 maggio 2018
La danza comincia ove la parola si arresta. Così, descrivere quella creazione di sculture umane, visibili solo per un istante, in quell’attimo in sospeso tra la perfezione e la bellezza non è mai compito facile.
Ecco perché per la Manon di Kenneth MacMillan non servono troppe parole. Prima si danza, poi si pensa: è questo l’ordine naturale delle cose. Far danzare i propri pensieri sulle note sublimi della musica Jules Massenet, diretta con sapienza dal maestro Martin Yates rischia di essere esperimento tanto piacevole da perdersi tra sensazioni, immagini e piccoli attimi. Insomma non si sa davvero da dove partire.
Scelgo la coreografia, per farvi d’un tratto calare in quello che MacMillan intendeva come secolo dei Lumi in Francia: “La disparità fra le grande ricchezza e la grande povertà” di quel secolo, di quegli attimi appunto. Così lo stesso registra descriveva il suo intento quando coreografò e pensò la sua personale Histoire de Manon.
La scenografia e i costumi sono del geniale designer greco Nicholas Georgiadis, un must per McMillan, il cui marchio di fabbrica è la quantità e la qualità di idee creative ed infatti, scenografia e soprattutto, costumi si connotano tra ricca opulenza e la sognante decadenza. Due temi ed elementi che, mescolati insieme, creano un crescendo di atmosfera tragica nella quale la Manon si sposta e vive. Non solo la Manon protagonista (una Susanna Salvi perfetta e che incarna in ogni momento gli slanci d’animo altalenanti dell’inquieta fanciulla) ma tutto lo spettacolo stesso. Diventa, quindi un piacere perdersi tra le allegorie che man mano vanno a comporre la scena durante i vari quadri: scene di vita quotidiana di una Francia che fu e che ancora rimane sospesa tra sogni, leggenda, illusioni e racconti. Questi affreschi danzanti rubano occhi, attenzioni e scena e si spostano sapienti e consci che ogni azione/reazione, ogni movimento e slancio è destinato al fine ultimo della perfezione: un dipinto che viene tratteggiato da ogni angolo e che al centro esplode di soave bellezza. Il tutto senza udire una sola parola; il tutto lascia senza parole.
I virtuosismi dei protagonisti – dalla Salvi appunto, passando per Claudio Cocino nei panni di Des Griez, fino all’ottimo Jacopo Giarda che interpreta Lescot e Manuel Parruccini nel ruolo del facoltoso amante – lineari, morbidi ed espressivi, coccolano il pubblico e sembrano dettare all’orchestra una nota dopo l’altra. La musica è infatti uno splendido collage che conta 46 estratti di opere diverse, un mosaico perfettamente riuscito che alterna momenti passionali a slanci vorticosi: insieme, creano i pensieri che muovono il lessico della danza.
La Salvi, in particolare, ha saputo rendere al meglio l’innocenza corrotta, violata ed infine riscattata che MacMillan voleva dare alla sua Manon, fornendo una grandissima prova delle sue abilità tecniche, della maestria nei movimenti e nella gestione di ogni espressione del corpo. D’altro canto veniva accompagnata durante il suo onirico volo, da un trio maschile affiatato ed azzeccatissimo per i ruoli comprimari che, dall’inizio alla fine del balletto, ruotano letteralmente attorno lei.
Questa di Manon, insomma, ha ricordato come MacMillan fosse un attento osservatore e narratore delle infinite possibilità in cui la psiche e il carattere dei personaggi da lui presi come spunto (in questo caso quelli pucciniani) può dispiegarsi, riuscendo ad affidare il tutto all’incanto del linguaggio universale e mai ridondante della danza.
Federico Cirillo
3 giugno 2018