Recensione sulla mostra Pollock e la scuola di New York al Complesso del Vittoriano dal 10 ottobre 2018 al 24 febbraio 2019
Dopo il successo dell’esposizione a Palazzo Reale di Milano del 2013, Arthemisia organizza a Roma la mostra su Pollock e la scuola di New York, a cura di Luca Beatrice, con circa 50 opere dell’espressionismo astratto americano provenienti dalla collezione del Whitney Museum di New York. A Roma la location prescelta è l’Ala Brasini del Palazzo del Vittoriano, dove ad accoglierci troviamo un video di presentazione degli anni del primo e del secondo dopoguerra, il periodo in cui i pittori in questione hanno operato. In primo piano, all’interno del filmato, la celebre foto di Nina Leen agli artisti appartenenti a questo gruppo - detti gli Irascibili - fotografati in abiti eleganti. Sono gli autori della celebre lettera di protesta scritta al direttore del Metropolitan Museum poiché esclusi dalla mostra di arte contemporanea del 1950 e questa contestazione valse loro il soprannome.
Non è chiara la scelta dell’abito borghese “da banchiere” nel clima di rottura che propongono, ma di sicuro appare evidente il contrasto tra la loro arte e la loro presentazione. Dopo il video il percorso inizia dalla prima stanza dedicata a Pollock e alla moglie Lee Krasner, non meno dotata di talento del marito ma adombrata presto dalla fama di lui. E paradossalmente, a primo impatto colpisce più la sua unica opera - valorizzata da un gioco di luci che la mette in risalto - rispetto alle poche presenti di Pollock, per lo più giovanili. Unico dipinto di quest’ultimo a spiccare è il noto Number 17, a base scura con linee colorate. Nella stanza successiva il celebre Number 27, richiamo dell’evento di cui è diventato simbolo, presente su tutti i manifesti, locandine e brochure della mostra. Ci si sofferma a gustare una delle opere più rappresentative di Pollock, larga circa 3 metri, in cui la tecnica del dripping (sgocciolamento) ha dato vita a un intreccio di linee chiare di colore rosa, bianco, beige, giallo, grigio tra cui affiorano macchie chiare e scure.
Anche se di presenza inferiore, è proprio il nero ad attirare l’attenzione dell’osservatore. Queste intrusioni scure appaiono come emozioni disturbanti in un contesto più delicato e forse anche più fragile. Number 27 è una delle rappresentazioni simboliche e metaforiche della vita di quest’artista. La pittura è stata per lui la valvola di sfogo di un malessere interiore che, incancrenitosi, lo ha portato dapprima all’alcol e poi ad una morte precoce avvenuta nel 1956: schiantandosi a grande velocità contro un albero. La sua morte violenta e prematura ha contribuito a crearne il mito. Di sicuro egli ha avuto il merito di dar vita all’espressionismo astratto americano come corrente di pensiero e di creazione artistica nuova e indipendente dall’Europa, situazione non rintracciabile in tutti gli Irascibili. Proseguendo nella sala successiva, infatti, troviamo de Kooning - nativo olandese, Gorky - di origini armene in cui l’influenza del surrealismo è palese - e una sala dedicata interamente a Kline le cui pennellate nere spesse sulla base bianca sembrano chiudere la visione all’osservatore, lasciandogli addosso una sensazione di inquietudine. Al piano superiore un’ampia esposizione di quadri che mostrano le svariate declinazioni assunte dall’espressionismo astratto americano. Di nuovo de Kooning con le sue pennellate colorate astratte in Door the river e la trasfigurazione del corpo femminile, ormai solo lontanamente intuibile (Woman singing I e II). Troviamo opere materiche con pennellate spessissime che diventano tridimensionali con Hofmann, come nel caso di Orchestral dominance in yellow e ci imbattiamo nell’informale di Ad Reinhard, che più ci rimanda alla contemporanea arte informale che nel frattempo dilagava in Europa.
Non mancano le creazioni sui generis di Sam Francis in cui la pennellata astratta di colore puro lascia spazi bianchi al centro del dipinto, fungendo da contorno decorativo a qualcosa di chiaro o di poco chiaro perché vuoto e non definito. In una prospettiva di genere risulta interessante il non aver trascurato artiste donne: Helen Frankenthaler, che nel suo dipinto Blu territory ci trasmette utilizza colori tenui che vanno dall’azzurro più marcato a quello più chiaro, con al centro le sembianze di una rosa che ci restituisce la bellezza e la delicatezza della sua composizione pittorica, o Lee Kraser ed Helen Frankenthaler, che in quegli anni avevano poca visibilità. L’ultima stanza al piano terra accoglie due opere di Mark Rothko, esponente della tecnica pittorica del color field, in cui spicca la base gialla su cui sono raffigurati rettangoli colorati più chiari o più scuri a interrompere la compattezza di un giallo sonoro, intenso.
L’evento ci offre un segmento di storia dell’arte contemporanea che rientra nelle Avanguardie partite dall’Europa nei primi decenni del secolo e che ha raggiunto uno sviluppo autonomo ed originale tra gli anni Quaranta e Cinquanta negli U.S.A. In quegli anni la capitale dell’arte si sposta da Parigi, caduta sotto il controllo nazista, a New York. Con l’Action painting, linguaggio pittorico innovativo in rottura con il figurativo, la creazione avviene d’impulso, senza un progetto anteriore preciso ed è fatta di pennellate libere, istintive, irruenti che possono essere realizzate con svariate tecniche: dal dripping, dove la tela posta a terra sostituisce il tradizionale cavalletto - come nel caso di Pollock - al color field, in cui l’opera è costruita da campiture di colore piatto, unico o interrotto da altre forme geometriche come nel caso di Rothko. Mostra ben allestita e ben organizzata nell’insieme, anche se la presenza di Pollock è solo marginale.
Mena Zarrelli
23 ottobre 2018