Recensione della mostra L’uomo e l’albero ospitata presso il Museo Carlo Bilotti dal 18 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018
L’uomo e l’albero, titolo scelto per sintetizzare la nuova antologica di Maurizio Pierfranceschi, è anche il nome di una sua opera del 1985: a essa il compito di accogliere e incuriosire il visitatore, con i suoi colori malinconici, la figura pensosa dotata di pennello tra un alberello e una sorta di arbusto, le dimensioni ridotte e una certa forza in potenza ma ancora acerba. Di fronte, la sua evoluzione 32 anni dopo: nel “L’uomo e l’albero nuovo - realizzato su otto pannelli di legno marino la cui superficie gioca magnificamente con i segni pittorici - lo stesso individuo, ormai consapevole della propria arte, impugna il medesimo pennello. Non più solo, è accompagnato da una figura più piccola che gli tiene compagnia mentre si incammina in mezzo agli stessi due alberi, anch’essi notevolmente cresciuti, tra i quali si dispongono e prendono vita altri elementi ed esseri.
Il gioco di riflessi e richiami è nuovamente espresso, ma più grandiosamente, con Ninfeo: tre grandi tele affiancate più un fregio superiore sui quali si specchia l’autentico ninfeo barocco che caratterizza il piano inferiore del Museo Carlo Bilotti: un’opera sì umana ma perfettamente integrata nella natura, tema ricorrente nell’esposizione. Tra loro l’inquietante eppure placido Autoritratto con passero, che pare ispirarsi al saggio Sensazioni davanti alla marina di Friedrich Kleist: qui l’autore commenta Monaco in riva al mare, celebre dipinto di Caspar David Friedrich. Si legge: “poiché, nella sua uniformità e sconfinatezza, non ha altro primo piano che la cornice, è come se a chi lo osserva fossero recise le palpebre”. La palpebra recisa torna, dunque, nell’immacolata ed evocativa terracotta rappresentante Pierfranceschi stesso da bambino: l’occhio destro è spalancato, ma privo di bulbo oculare, come ad accogliere tutto ciò che può esser visto. Quello sinistro è pacificamente chiuso sul proprio mondo interiore mentre un passero posato sulla spalla pare cinguettargli qualcosa all’orecchio: forse proprio i segreti di quella Natura che l’artista non ha mai smesso di indagare. “Dipingo rami e rovi perché sono strutture architettoniche”, dichiara: in effetti il rapporto tra interno ed esterno - nell’individuo così come nel paesaggio - è il cardine intorno al quale ruota tutta la sua poetica, come ben dimostrano Agnus Dei o Dittico.
Pierfranceschi si definisce un muratore: “dipingo perché la pittura stia in piedi” e utilizza il chiostro come perfetta sintesi di ciò che è al tempo stesso aperto e riparato, costruzione e natura insieme. Ma può essere definito anche uno scopritore: di ciò che è sotto il legno, il cartone o la pittura. A cui giunge scarnificando anche parti già dipinte, per trarne ulteriori forme: una delicata ruvidità espressa in Deposizione, Paesaggio convulso e nella sorprendente serie Metopa, dove il colore affiora da una superficie tinta di bianco da cui pare mondato.
Infine ci sono le sculture della serie Prima delle cose ultime: frutto di un continuo ma attento accumulo di materiali di recupero che poi la casualità – se così vogliamo chiamare la capacità di memorizzare e catalogare quanto trovato per strada o in giro per poi associarlo nel tempo – ha reso opera d’arte. Maurizio Pierfranceschi è decisamente un artigiano e, come chiunque lavori con le mani non per esibirne vanitosamente i segni ma per urgenza creativa, non ama rilasciare interviste sul proprio operato ma preferisce che siano le opere stesse a parlare: “Altrimenti avrei fatto lo scrittore”, dice. Lo saluto avviandomi verso l’uscita, ma prima ci tengo a complimentarmi per una piccola scultura che mi ha rapito e rappresenta una collina sormontata da un unico cipresso: mi accompagna a rivederla, rievocando il modo in cui ha convinto il suo amico falegname a cedergli quel pezzo di legno già naturalmente dotato di tale forma e di un buco al centro. Anni dopo si imbatte in una cosa di ferro che ricorda un albero. Unendoli ottiene una composizione che mi appare incantevolmente equilibrata nella sua austera espressività: la chiama Paesaggio italiano. Lo stesso accade con l’avanzo di una soglia di travertino: originariamente atta ad agevolare il deflusso dell’acqua piovana, tra le sue mani diviene base ideale per due fasce metalliche gradevolmente arrugginite e stranamente eleganti nella loro accidentale torsione. Una lastra grigioscura fa da materasso a un altro pezzo di travertino, stavolta vagamente antropomorfo: che si tratti di un lussuoso letto a baldacchino, un lugubre catafalco, una nobile sepoltura non è dato saperlo. Ma, ancora una volta, la capacità di assemblare senza il minimo ritocco a posteriori fanno di questa e di tutte le altre sculture vere e proprie tracce sentimentali, che conservano la robustezza della materia di cui sono costituite unita all’estrema fragilità di un insperato incontro. E, riflettendoci, mi sembrano incredibilmente somiglianti al loro creatore.
Cristian Pandolfino
20 ottobre 2017
Informazioni
Didascalie Quadri in ordine di apparizione:
L'uomo e l'albero, 1985 - olio su tela, 70 x 25 cm
L'uomo e l'albero nuovo, 2016 - tecnica mista su legno marino, 240 x 320 cm
Autoritratto con passero, 2017 - terracotta bianca con tracce di colore, 30 x 40 x 20 cm